Se lo scrittore impara dai suoi personaggi #2
José Saramago, discorso per il Nobel. Parte seconda
Nel pomeriggio, a Stoccolma, la scrittrice sudcoreana Han Kang terrà il discorso di accettazione del Nobel per la letteratura 2024. In concomitanza di questo appuntamento, e come anticipato nell’ultimo post, la seconda parte del discorso pronunciato da José Saramago nella stessa occasione, nel dicembre 1998, e da me tradotto pochi mesi dopo per il trimestrale culturale europeo «Lettera internazionale», numero 50/60, 1°/2° trimestre 1999, pp. 2-5.)
| di José Saramago |
[Continua da qui.]
Di poesia l’adolescente già sapeva qualche lezione, appresa nei libri di testo quando, in una scuola d’insegnamento professionale di Lisbona, si preparava al mestiere che avrebbe esercitato all’inizio della sua vita lavorativa: il meccanico. Aveva anche avuto buoni maestri di arte poetica nelle lunghe ore serali passate nelle biblioteche pubbliche, leggendo a caso e pescando dai cataloghi, senza una guida, senza nessuno che lo consigliasse, con lo stesso stupore creativo del navigatore che inventa ogni luogo che scopre. Ma è nella biblioteca della scuola industriale che L’anno della morte di Ricardo Reis ha cominciato a essere scritto… Qui, un giorno il giovane meccanico (allora diciassettenne) trovò una rivista – si chiamava «Atena» – contenente delle poesie firmate con quel nome e, naturalmente, conoscendo poco o niente la cartografia letteraria del suo paese, pensò che esistesse davvero in Portogallo un poeta chiamato Ricardo Reis. Non tardò molto, tuttavia, a scoprire che questo poeta era in realtà un certo Fernando Nogueira Pessoa che firmava le sue opere con i nomi di poeti inesistenti partoriti dalla sua fantasia e che chiamava eteronimi, parola che non esisteva nei dizionari dell’epoca, per questo fu così difficile all’apprendista di lettere capire cosa significasse. Imparò a memoria, quel ragazzo, molte poesie di Ricardo Reis («Per essere grande, sii uno / Metti tutto te stesso in ogni piccola cosa che fai»), ma non poteva accettare, nonostante fosse tanto giovane e ignorante, che una mente superiore avesse potuto concepire, senza rimorso, questo verso crudele: «Saggio è colui che si contenta dello spettacolo del mondo».
Più tardi, molto più tardi, l’apprendista, già con i capelli grigi e un po’ più saldo nel suo sapere, avrebbe osato scrivere un romanzo per mostrare al poeta delle Odi qualcosa dello spettacolo del mondo nel 1936, anno in cui gli faceva vivere i suoi ultimi giorni: l’occupazione della Renania da parte dell’esercito nazista, la guerra di Franco contro la Repubblica spagnola, la creazione a opera di Salazar delle milizie fasciste portoghesi. Era il suo modo di dirgli: «Ecco lo spettacolo del mondo, mio poeta di serena amarezza ed elegante scetticismo. Godi, contempla, giacché stare seduto è la tua saggezza…».
L’anno della morte di Ricardo Reis terminava con le parole malinconiche: «Qui, dove il mare è finito e la terra attende». Pertanto, non ci sarebbero più state scoperte per il Portogallo, destinato a un’attesa infinita di futuri nemmeno immaginabili: solo l’abituale fado, la saudade di sempre, e poco più… Fu allora che l’apprendista immaginò che forse ci potesse essere ancora un modo di tornare a mettere le barche in acqua, per esempio, muovendo la terra e facendola andare alla deriva per il mare.
Frutto immediato del risentimento collettivo portoghese verso il disdegno storico dell’Europa (sarebbe più esatto dire frutto di un mio risentimento personale…), il romanzo che allora scrissi – La zattera di pietra – faceva staccare dal continente europeo l’intera penisola iberica, trasformandola in una grande isola galleggiante, che si muoveva senza remi né vele né eliche in direzione del Sud del mondo, «una massa di pietra e terra, coperta di città, villaggi, fiumi, boschi, fabbriche, terre incolte, campi coltivati, con la sua gente e i suoi animali», alla ricerca di una nuova utopia: l’incontro culturale dei popoli peninsulari con i popoli dall’altro lato dell’Atlantico, sfidando in questo modo – a tanto la mia strategia arrivava – il dominio soffocante che gli Stati Uniti esercitavano sulla regione… Una visione due volte utopica vedrebbe in questa finzione politica una metafora molto più generosa e umana: che l’Europa, nella sua interezza, debba muoversi verso il Sud, per contribuire, a compensazione dei suoi abusi colonialisti vecchi e nuovi, a riequilibrare il mondo. Cioè, l’Europa finalmente come riferimento etico. I personaggi della Zattera di pietra – due donne, tre uomini e un cane – viaggiano continuamente attraverso la penisola mentre questa solca l’oceano. Il mondo sta cambiando ed essi sanno che devono trovare dentro di sé le persone nuove che diventeranno (senza parlare del cane, che non è un cane come gli altri…). Questo gli basterà.
Poi l’apprendista si è ricordato che in un lontano periodo della sua vita aveva lavorato come correttore di bozze e che, se nella Zattera di pietra aveva, per così dire, rivisto il futuro, non sarebbe stato male che ora rivedesse il passato, inventando un romanzo che si sarebbe chiamato Storia dell’assedio di Lisbona, nel quale un correttore appunto di bozze, rivedendo un libro con lo stesso titolo, ma di storia, e stanco di constatare come la Storia è sempre meno capace di sorprendere, decide di sostituire a un «sì» un «no», sovvertendo l’autorità delle «verità storiche». Raimundo Silva, questo è il nome del correttore di bozze, è un uomo semplice, ordinario, che si distingue dalla maggioranza solo perché crede che tutte le cose abbiano il loro lato visibile e il loro lato invisibile e che noi non sapremo niente di esse finché non li avremo scoperti entrambi. Precisamente questo sostiene una conversazione che egli ha con lo storico:
Le ricordo che i correttori sono persone sobrie, hanno già visto tanto di letteratura e di vita, Il mio libro, le ricordo io, è di storia, Infatti così lo definirebbero secondo la classificazione tradizionale dei generi, però, non essendo mia intenzione indicare altre contraddizioni, secondo la mia modesta opinione, dottore, tutto quello che non è vita è letteratura, Anche la storia, Soprattutto la storia, senza offesa per nessuno, E la pittura, e la musica?, La musica continua a resistere da quando è nata, ora va, ora viene, vuole liberarsi della parola, immagino per invidia, ma ritorna sempre all’obbedienza, E la pittura?, Orbene, la pittura non è altro che letteratura fatta coi pennelli, Spero non si dimentichi che l’umanità ha cominciato a dipingere molto prima di saper scrivere, Conosce quel detto «se non hai il cane, caccia con il gatto», in altre parole, chi non sa scrivere dipinge, o disegna, è quello che fanno i bambini, Quello che lei vuole dire, in altre parole, è che la letteratura esisteva già prima che nascesse, Sissignore, come l’uomo, in altre parole, prima di esserlo già lo era, […] A me sembra che lei abbia sbagliato vocazione, avrebbe dovuto essere filosofo, o storico, ha il piglio e l’aspetto che tali arti richiedono, Mi manca la preparazione, dottore, che cosa può fare un semplice uomo senza la preparazione, è già fortunato se è venuto al mondo con la genetica a posto, ma per così dire allo stato bruto, e poi nessun’altra educazione se non i primi rudimenti, che sono rimasti gli unici, Potrebbe presentarsi come autodidatta, prodotto del proprio dignitoso sforzo, non c’è niente da vergognarsi, anticamente la società era orgogliosa dei suoi autodidatti, Questo è finito, adesso è arrivato il progresso ed è finito, gli autodidatti sono malvisti, solo quelli che scrivono versi e storie divertenti sono autorizzati a essere e a continuare a essere autodidatti, fortuna loro, ma io, lo confesso, per la creazione letteraria non ho mai avuto propensione, Allora faccia il filosofo, signore mio, Lei, dottore, è un umorista di spirito acutissimo, coltiva magistralmente l’ironia, mi chiedo perfino come mai si sia dedicato alla storia, che è una scienza così seria e profonda, Sono ironico soltanto nella vita reale, Ben vorrei io che la storia non fosse vita reale, ma letteratura e nient’altro, Ma la storia è stata vita reale quando ancora non si poteva chiamare storia, […] Allora lei, dottore, crede che la storia e la vita reale…, Sì, lo credo, Che la storia sia stata vita reale, voglio dire, Non abbia dubbi, Che ne sarebbe di noi se non esistesse il deleatur, ha sospirato il correttore.1
È inutile aggiungere che l’apprendista aveva imparato, con Raimundo Silva, la lezione del dubbio. Era ora.
Probabilmente è stato anche questo apprendimento del dubbio che lo ha indotto a scrivere, due anni più tardi, Il vangelo secondo Gesù. È vero, e lui stesso l’ha detto, che il titolo era il risultato di un’illusione ottica, ma è giusto chiedersi se, nello stesso tempo, non sia stato il sereno esempio del correttore di bozze a preparare il terreno da cui sarebbe sgorgato il nuovo romanzo.
Questa volta non si trattava di leggere dietro le pagine del Nuovo Testamento alla ricerca di antitesi, ma di illuminare la loro superficie con una luce radente, come si fa con un dipinto, in modo da farne risaltare i rilievi, le tracce dei percorsi, le ombre delle depressioni. È stato così che l’apprendista, ora circondato da personaggi evangelici, ha letto, come se fosse la prima volta, la descrizione della strage degli innocenti, e, dopo aver letto, non è riuscito a capire. Non è riuscito a capire perché ci potessero essere già dei martiri in una religione che avrebbe dovuto attendere ancora trent’anni per ascoltare il suo fondatore pronunciare le prime parole al riguardo, non è riuscito a capire perché l’unica persona che avrebbe potuto salvare la vita dei bambini di Betlemme non l’avesse fatto, non è riuscito a capire l’assenza, in Giuseppe, di un minimo senso di responsabilità, di rimorso, di colpa, o perfino di curiosità, dopo essere tornato con la sua famiglia dall’Egitto. Non si può certo argomentare, in difesa della causa, che è stato necessario che i bambini di Betlemme morissero perché si potesse salvare la vita di Gesù: il semplice buon senso, che dovrebbe presiedere a tutte le cose, umane e divine, sta a ricordarci che Dio non avrebbe mandato suo Figlio sulla terra, soprattutto con la missione di redimere i peccati dell’umanità, perché egli morisse all’età di due anni decapitato da un soldato di Erode… In questo Vangelo, scritto dall’apprendista con il grande rispetto che si deve ai grandi drammi, Giuseppe sarà cosciente della sua colpa, accetterà il rimorso come castigo della colpa commessa e si lascerà condurre alla morte quasi senza resistenza, come se questa fosse l’unica cosa rimasta per saldare i suoi conti con il mondo.
Di conseguenza, Il vangelo dell’apprendista non è più una leggenda edificante di individui benedetti e di spiriti superiori, ma la storia di alcuni esseri umani soggetti a un potere contro il quale lottano, ma che non possono sconfiggere. Gesù, che erediterà i sandali con cui suo padre ha percorso tante strade polverose, erediterà anche il tragico senso di responsabilità e colpa che mai l’abbandonerà, neanche quando leverà la sua voce dall’alto della croce: «Uomini, perdonatelo perché egli non sa quello che ha fatto», riferendosi certamente al Dio che lo ha mandato quaggiù, ma, se in quest’ultima agonia ancora se ne ricorda, forse anche l’autentico padre che l’ha umanamente generato in carne e ossa. Come si può vedere, l’apprendista ha già fatto un lungo viaggio quando nel suo Vangelo eretico scrive le ultime parole del discorso nel tempio tra Gesù e lo scriba: «La colpa è un lupo che mangia il suo cucciolo dopo aver divorato il padre, disse lo scriba, Il lupo di cui parli ha già divorato mio padre, disse Gesù, Allora manca solo che divori te, E tu, nella tua vita, sei mai stato mangiato, o divorato?, Non solo divorato, ma anche vomitato, rispose lo scriba».
Se l’imperatore Carlo Magno non avesse costruito un monastero nel nord della Germania, se questo monastero non avesse dato origine alla città di Münster, se Münster non avesse voluto celebrare i mille e duecento anni dalla sua fondazione con un’opera sulla spaventosa guerra che nel XVI secolo oppose anabattisti e cattolici, l’apprendista non avrebbe scritto la pièce teatrale In nomine Dei. Ancora una volta, senza altro ausilio che la luce sottile della sua ragione, l’apprendista si è dovuto infilare nell’oscuro labirinto dei credi religiosi, quei credi che con tanta facilità spingono gli esseri umani a uccidere e a farsi uccidere. E, di nuovo, ha visto la maschera orrenda dell’intolleranza, un’intolleranza che a Münster raggiunse le vette di un parossismo demenziale, un’intolleranza che insultava la stessa causa che entrambe le parti proclamavano di difendere. Perché non si trattava di una guerra in nome di due dèi nemici, ma di una guerra in nome di uno stesso dio. Accecati dai loro credi, gli anabattisti e i cattolici di Münster furono incapaci di comprendere la più chiara di tutte le evidenze: nel giorno del giudizio, quando gli uni e gli altri si appresteranno a ricevere il premio o il castigo che meritano per le loro azioni sulla terra, Dio, se le sue decisioni si fondano su qualcosa di simile alla logica umana, dovrà accoglierli tutti in paradiso, per il semplice motivo che sia gli uni che gli altri credono in lui. La terribile carneficina di Münster ha insegnato all’apprendista che, al contrario di quanto promettono, le religioni non sono mai usate per unire gli uomini e che la più assurda di tutte è una guerra santa, tenuto conto che Dio non può, anche se lo volesse, dichiarare guerra a se stesso…
Ciechi. L’apprendista ha pensato: «Siamo ciechi», e si è messo a scrivere Cecità per ricordare a chi volesse leggerlo che quando umiliamo la vita pervertiamo la ragione, che ogni giorno la dignità umana è insultata dai potenti del nostro mondo, che la menzogna universale ha rimpiazzato le verità plurali, che l’uomo ha smesso di rispettare se stesso quando ha perso il rispetto che doveva ai suoi simili. Poi l’apprendista, come se cercasse di esorcizzare i mostri generati dalla cecità della ragione, si è messo a scrivere la più semplice di tutte le storie: una persona che va in cerca soltanto di un’altra persona, perché ha capito che la vita non ha nulla di più importante da chiedere a un essere umano. Il libro si chiama Tutti i nomi. Non scritti, tutti i nostri nomi stanno lì. I nomi dei vivi e i nomi dei morti.
Finisco. La voce che ha letto queste pagine voleva essere l’eco delle voci congiunte dei miei personaggi. Io non ho, a ben vedere, più voce di quanta ne abbiano avuta loro. Perdonatemi se questo vi è parso poco, per me è tutto.
Traduzione di Nazzareno Mataldi
L’autore
José Saramago (1922-2010) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998. In Italia i suoi libri sono ora pubblicati tutti da Feltrinelli.
José Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona, traduzione di Rita Desti, Bompiani, Milano 1998, pp. 12-13.