Alfabeto del Cammino, parte seconda
B come ¡Buen Camino! ✦ C come Cavallo ✦ D come Don ✦ E come Estate
| di Franca Di Muzio |
Continuazione di
B come ¡Buen Camino!
La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
(Ovidio)
Buen Camino non è soltanto il nome della app che ogni pellegrino scarica sul proprio smartphone sin dal primo momento in cui pensa di partire, e che contiene tutte le informazioni utili per far fronte a necessità e imprevisti: tappe, chilometri, ostelli, ristoranti, etc. ¡Buen Camino! è l’augurio per eccellenza, quello che più spesso rivolgerai e ti sentirai rivolgere, e a cui la prima volta risponderai... sbagliando.
Ma il primo sbaglio lo avrai già commesso a partire dalle basi, anzi la base di ogni pellegrino degno di tale nome: i piedi.
Nonostante nei mesi precedenti ti sia fatta una cultura in materia, e il tuo zaino rigurgiti svariate paia di calzini tecnici di marca – spuntano qua e là, insolenti come funghi –, per la prima tappa del tuo Cammino sceglierai di indossare il paio più sciapo che hai: in cotone sottile e morbido, presi da Acqua & Sapone, identici a quelli che usi in casa.
Chi ben comincia è già a metà dell’opera, dice il proverbio, e tu vuoi iniziare in modo soft, ma così facendo commetti un grande errore: camminarci senza averli testati su lunghe distanze. Perché un conto sono i passi pantofolai, un altro quelli pellegrini; lo sai bene, ma per qualche oscura, stupida ragione – autosabotaggio? delirio di onnipotenza? – hai deciso di ignorare quella vocina da Grillo Parlante che ti sussurra di mettere quelli tecnici: se li hanno fatti così spessi e ammortizzati, un ottimo motivo ci sarà!
Ma sei da sola, libera di sbagliare con la tua testa, quindi zittisci la vocina e senz’altro indugio lasci i calzini sportivi a cuccia, infili le tue estremità nel paio morbido e nelle scarpe – lacci non troppo lenti né troppo stretti, per una calzata sostenuta ma confortevole – e scendi per fare colazione. L’albergo che hai prenotato per la tua prima notte in terra galiziana ha pretese da Hotel ma somiglia più a una pensione, la tua camera con vista sulle stradine sgarrupate di Ferrol non ha l’aria condizionata ma l’acqua calda sì: contentiamoci!
(bicchiere mezzo pieno, Franca: guarda sempre il bicchiere mezzo pieno)
Trovi già alzata l’anziana ostessa, assuefatta alle richieste dei pellegrini: colazione fuori orario, in anticipo, alle sei!, ché bisogna uscire presto per non rischiare:
a) di morire di caldo lungo il Cammino – pur se in Galizia, è pur sempre agosto;
b) di arrivare per ultimi all’ostello.
Davvero lo stai facendo? Davvero stai partendo? Non starai facendo una grossa, enorme cazzata?
Non ancora metti piede fuori dall’hotel-pensione e già vorresti essere in cammino, già 16 km oltre, oltre, a Neda, termine della tua prima tappa, dove poter piazzare in tempo utile il tuo zaino fuori dalla porta dell’ostello e assicurarti così un posto per far fronte ai tuoi bisogni quotidiani. Camminare-Bere-Pisciare-Mangiare-Dormire: nei prossimi giorni, la tua vita si ridurrà all’osso, alla faccia della piramide di Maslow; tornare all’essenziale, è quello che volevi, è per questo che sei qua.
Fletti ripetutamente gli alluci sotto la sedia, ma che morbidi questi calzini, ottima scelta Franca!, e attacchi la tua colazione nella penombra di un salotto che ha visto tempi migliori. Speravi nel ¡Buen Camino! beneaugurante dalla vecchia, ma lei senza proferire parola è sparita in cucina dopo averti piazzato davanti il tuo caffellatte e cornetto, e non accenna a tornare.
Vabbè, pazienza! Dopotutto la caratteristica del Cammino, o almeno quella che più cercavi, è la solitudine, quindi tanto vale iniziare subito: ad essere la tua migliore amica in questo percorso, a farti buona compagnia.
Ed è con speranza e paura in egual misura che ti issi in spalla lo zaino ed esci nel buio del mattino, sussurrandoti ¡Buen Camino!
Si parte, adesso tutto quello che devi fare è tenere gli occhi incollati e i piedi direzionati su frecce e conchiglie.
Scorgi nel semibuio davanti a te un’altra coppia di pellegrini antelucani; per un po’ riesci a seguirne la scia, ma a un certo punto ti seminano e a te non resta che inoltrarti da sola fuori città, tra rotatorie, strade asfaltate e zone industriali identiche a quelle di mezza Europa e che non hanno nulla di bello, pittoresco o bucolico; per fortuna poco più in là, nei pressi di un poligono di tiro (non sarà il primo che incontrerai) inizi a intravedere... un lago, o un fiume? Ecco lo sapevo, dovevo studiarmi meglio il percorso!
L’acqua ti è sempre piaciuta, e iniziare il tuo Cammino da una località sulle rive dell’oceano ti è parso di buon auspicio, anzi sai che c’è? Facciamoci subito fare una foto da questi qua, pure se il paesaggio non è niente di che. Fermi a gesti due ragazzi – nell’ansia della partenza, hai saltato gli esercizi logopedici, quindi il tuo livello di voce oggi è sottozero – e in un bigio mattino vi scambiate il favore delle foto ricordo.
Due ore di cammino ininterrotto in verdissime campagne con annesse casette in pietra, sorpassata da gruppetti di pellegrini ciarlieri e atletici, sogguardata da animali da cortile e contadini, ammirando eucalipti alti come grattacieli, tenendo d’occhio la segnaletica. Pur essendo agosto non fa affatto caldo, ma hai già bevuto tre quarti della tua riserva d’acqua, e soprattutto c’è qualcosa che ti turba e disturba, qualcosa che non puoi più ignorare.
Ti accasci su una delle panchine di legno che costeggiano il fiume Xubia, e lo osservi scorrere aspettando che passi... non il cadavere del tuo nemico, ma il dolore infernale che da un po’ ti pulsa nei piedi e che sta per esplodere: tenerli al chiuso, stretti da lacci ti ha aiutato a sopportarlo, ma ora che finalmente ti togli le scarpe, ti accorgi che i tuoi calzini-tanto-morbidi-e-carini sono – ahitè – macchiati di sangue.
Li sfili lentamente, li lanci sull’erba e trattenendo il fiato esamini le tue dita distrutte: ed eccola qua l’enorme cazzata, la buona intenzione traslata in inferno. Maledetti calzini morbidi e sottili, che cammina cammina ti hanno sfregato e fregato: come farai ad andare avanti? E sei appena all’inizio! Lo sapevi eccome, che non erano la scelta giusta ma... hai voluto sperimentare, e adesso la paghi sulla tua pelle, letteralmente.
Una donna arriva da chissà dove e ti passa davanti ma tu, presa a presa a tamponare le tue estremità con un fazzolettino disinfettante, alzi la testa giusto in tempo per coglierne un angolo di sorriso e il cordiale augurio.
¡Buen Camino! rifiati di rimando, sbagliando: non ha zaino, scarpe, bastone o bastoncini, è vestita normalmente, sarà di queste parti, e chissà quanti ne avrà visti come te, lungo il fiume, a riordinare le idee, a riposarsi, a raccogliere le energie per arrivare alla fine della prima tappa del Camino Inglés: Ferrol-Neda, quella che dicono essere la più facile in assoluto ma che invece per te si sta rivelando una delle più dure, a causa dei calzini-killer.
Li lasceresti volentieri a terra, come loro hanno lasciato te (tiè!), poi ci ripensi e li raccogli, infilandoli in un sacchetto vuoto. Poi i cavolo di calzini – tecnici stavolta, tecnicissimi –, zaino in spalla e marsch!, ché a Neda mancano ancora un cinque chilometri buoni per arrivare ai 16 totali indicati sulla m-App-a.
Dovrai farne invece quasi 22, prima di trovare un ostello con dei posti liberi e terminare il tuo primo giorno di (Buen? Per ora, mucho Mal!) Camino.
C come Cavallo
C’è chi va a Santiago a cavallo di un taxi, o lo usa per farsi alleggerire almeno dello zaino; c’è chi ci arriva in bici (i cosiddetti “cicligrini”) o perfino su una sedia a rotelle: ogni mezzo è buono per andare incontro a se stessi, se si sente che è arrivato il momento.
Tu hai scelto di andare a piedi; per dolenti che siano, passo dopo passo stai imparando a prendertene cura, assecondandoli o forzandoli se è il caso; a trovare il tuo ritmo, in un dialogo continuo tra dentro e fuori, anima e corpo, azione e contemplazione, moto e riposo. Sei tu il tuo veicolo, da te non puoi scendere né scappare: ti tocca portarti sana e salva a destinazione, supportarti e sopportarti lungo il percorso.
Ogni tanto, se sei fortunata, farai degli incontri inaspettati.
Hai appena finito di salire – salire – salire e ancora salire, denti stretti e occhi fissi sullo sterrato di un’irta stradina di campagna, quando finalmente questa si appiana e si slarga in una discesa, anch’essa alquanto ripida. Giusto il tempo di rifiatare, ed ecco che in fondo a questa vedi emergere pian piano una criniera candida e sottile, scuri occhi mobili, la testa e il collo possenti e allo stesso tempo eleganti di un meraviglioso cavallo bianco. Incede lento, regale e silenzioso verso di te, con la sicurezza di chi è sul suo territorio e può fare tutto quello che vuole. Sei tu l’intrusa, sciò!
La stradina alle cui estremità vi trovate è lunga e stretta; per farlo passare, dovrai buttarti in un cespuglio, proprio come fecero quasi cent’anni prima tua madre e tua nonna davanti a un cavallo imbizzarrito, incrociato nelle campagne teatine: passò loro davanti come un lampo, narici schiumanti e occhi sbarrati, preso soltanto dalla propria corsa; ma questo cavallo è diverso, va piano... un galiziano purosangue, chissà quanti altri pellegrini avrà guardato, dall’alto della sua statura.
Neanche pensi a tirare fuori il telefono per immortalarlo; a scansarti invece sì, anche poi se non ce ne sarà bisogno, perché vedrai spuntare qualche passo più indietro la sua padrona, una ragazza alta e sottile che con un tap-tap del suo bastone lo farà deviare in mezzo ai campi.
Senti il battito del tuo cuore rallentare, e un sorriso spuntarti sulle labbra: o cavallo mio cavallo, che bello averti incontrato! Ero pronta a buttarmi da un lato per farti passare, a far fronte all’imprevisto e allo stesso tempo a lasciarmi andare alla contemplazione, totalmente immersa nel flusso della vita.
Quel cavallo nero al galoppo incrociato da tua madre e tua nonna, e questo cavallo bianco al passo, sono quanto di meno zen si possa immaginare, pura energia; vive rappresentazioni dell’urgenza che ti ha fatta partire, metterti in moto: ritrovare la propria forza vitale, il proprio cavallo, correndo o camminando, comunque andando al proprio passo, e “ciò che deve accadere, accade”.
Più tardi, arrivata a destinazione nell’ennesimo ostello, userai senza remore il tuo scordato filo di voce per raccontare la meraviglia di quell’incontro ad altri viandanti increduli; e quella sera a cena, li sentirai a loro volta riferire l’episodio ad altri, come se l’avessero vissuto loro in prima persona, ma non ti affannerai a smentirli, non dirai l’ho visto Io e non Tu, non dirai niente: se hai condiviso quella esperienza, è perché potesse diventare di tutti, oltre che tua.
Perché ogni cammino, ogni cavallo, è simile agli altri e allo stesso tempo diverso.
D come Don
Non c’è pellegrino italiano che non l’abbia conosciuto: Don F., decano della chiesa di Santa Maria del Cammino, “la più antica della città, la prima che si incontra entrando a Santiago, e l’ultima prima di arrivare in Cattedrale”, rimarca lui con legittimo orgoglio, è celebre per la sua schiettezza e semplicità.
“Che soggetto!”, commenterai via WhatsApp con il tuo Pellegrino Consigliere, che concorderà: dopo tanti anni di Cammino ha avuto modo di conoscerlo bene, sa l’impatto che il Don ha su chi, sfatto ma soddisfatto, approda come te nella sua chiesa, in attesa che inizi la messa delle 16.30 – l’unica in lingua italiana in tutta Santiago.
Magari ci scappa pure una confessione, chissà? Sono anni che non ti inginocchi davanti a un prete: anni di evitamenti, di dinieghi, di non fa più per me, ma in fondo cosa dovrei confessare, no grazie, sono a posto così, anche se proprio a posto non ti senti più da tanto tempo: c’è sempre quella... cosa, che ti rode dentro e non ti dà pace, quel groppo in gola che non va né su né giù, quel nodo, quel peso, quel rancore che porti agli altri e alla vita, quel dolore che ti ha spinta fin qui, alla Messa di un prete che, mentre si aggiusta la tonaca, vi invita senza troppe cerimonie ad avvicinarvi all’altare:
“I primi banchi sono liberi, non lasciatemi solo quassù, non siate timidi: prometto indulgenze a pioggia!, e non ditemi che non ne avete bisogno...” scherza, e ridacchiando e sogghignando una massa di pellegrini si alza e si appressa, e anche a te viene voglia di venire più avanti, più vicino, fino al secondo banco.
Adesso hai piena visuale e sei in piena luce, visibile a tutti invece che seminascosta come tuo solito: le poche volte che entri in una chiesa, ti infili di solito nelle penultime file, e sempre in posizione esterna, pronta a scappare via – ma via da dove, da chi?
Ora invece ti ritrovi in posizione centrale, compattata sui due lati da altri pellegrini – una donna all’incirca della tua età a sinistra, un uomo anziano alla tua destra, ed alzate all’unisono lo sguardo verso l’altare, dove Don F. sta dando inizio alla Messa cantando con voce possente Eeeeeccomi, Eeeeeccomi, Signore, io veeeeengooo, Eeeeeccomi, e le memorie musicali della tua adolescenza da corista in parrocchia tornano subito a galla. Conosci tutte le parole di quella canzone, così provi a unirti agli altri col tuo filo di voce, quella ex voce da contralto che il maestro del coro ti esortava spesso ad abbassare: “Ti senti solo tu Franca!”, ed ora eccoti, Eccomi di nuovo in una chiesa, a una messa, Eccomiiii, Signore, io veeeengooo qui in lacrime al secondo banco, mi vedi?, non ci credevo ma ce l’ho fatta ad arrivare fino a Santiago, meta di pellegrini con le vesciche ai piedi e nell’anima; persone in cerca di una luce, che hanno la morte nel cuore o che hanno a loro volta causato la morte: “anticamente, qui arrivavano in cerca di perdono gli assassini, gli usurai, i reietti della società: arrivavano come penitenza... chi arrivava! ché mica all’epoca esisteva Ryanair!” soggiunge il Don, facendovi sorridere col suo excursus storico: “arrivavano soli, perché il vero Cammino si fa sempre da soli, non in gruppo, sappiatelo; arrivavano dopo un Cammino durato mesi, in cui avevano rischiato la morte, un Cammino pieno di pericoli: mica una passeggiata nel bosco come quella che avete fatto voi!” sferza ancora il Don, e ti fa bene sentirlo parlare così, ti alleggerisce, ridimensiona la zavorra che ti sei portata appresso.
I minuti volano, tra risate e lacrime. Quante volte sorridi agli aneddoti del Don, e quante lacrime versi, specie quando vi invita a pronunciare a voce alta i nomi dei vostri genitori:
“Se non vi avessero messo al mondo, voi oggi non sareste qui: per pessimi che possano essere (stati), è per merito loro che siete qui, quindi questa messa le dedichiamo a loro, a...” e un coro di nomi risuona tra le volte della chiesetta, e senti tornare a galla tutte le tue lacrime represse, scorgi quelle della donna affianco a te, che scuote la testa sussurrando “Non ci posso credere!” cercando freneticamente nelle tasche un fazzoletto che non ha, e quelle dell’uomo anziano alla tua destra, che resta impassibile lasciandosele scorrere sulla faccia; come le loro, anche le tue labbra sillabano i nomi dei tuoi: ha ragione il Don, sono loro che ti hanno messa al mondo, e che ti hanno aiutata ad arrivare fin qui, loro a cui hai dedicato ogni passo del tuo Cammino, che hai invocato nella mattutina oscurità dei boschi, Datemi forza e coraggio – “Coraggio e cuore di pecora!” diceva tuo padre –, hai paura ma falla lo stesso questa cosa, lascia che un coraggio da leone e un’umiltà da pecora si manifestino e ti portino oltre, oltre i tuoi limiti, fino a destinazione.
Ed eccoti qui, Signore Eccomi, a Santiago, a Santa Maria del Cammino, a una Messa di cui assorbi ogni secondo, in cui senti che se sei qui “c’è una ragione e un giorno si manifesterà, se abbiamo fede: la speranza che non muore”, conclude la sua predica il Don, citando Manzoni; una delle prediche più lunghe che tu abbia mai ascoltato, vorresti che non finisse mai.
I fedeli sciamano fuori o indugiano ancora qui, a scattare foto alla Madonnina e alle altre statue, e ti scopri restia a uscire; vorresti salutare il Don, almeno stringergli la mano, perché no?, ed entri d’impulso in sacrestia, dove lui sta mettendo a posto i paramenti e si gira a guardarti e ti chiede “Come ti chiami?”, “Da dove vieni?” e “Dove vai?” e tu ti ascolti rispondergli a bisbigli “Volevo sapere se e quando sarebbe possibile confessarsi”, e lui: “Sì. Adesso”.
Ne uscirai di nuovo in lacrime ma sorridente, leggerissima, la zavorra che ti sei portata appresso per settimane, mesi, anni, sparita. Hai voglia di parlare con tutti, e il primo che troverai disponibile sarà il titolare di una minúscula libreria indipendente, nei paraggi della Chiesa – da quanto tempo non entravi in una libreria indipendente, mesi!, da quanto tempo non ti confessavi, anni?!
All’improvviso hai voglia di stare bene, di tornare ad essere felice, perché “Siamo tutti tarati sulla tristezza”, diceva poco prima il Don, “e questo è il peccato più grande. Chiedi a qualcuno di raccontarti un momento felice, e ti risponderà: ‘Ci devo pensare’; chiedigli qual è il suo dolore più grande, e sarà un fiume in piena!”
E la commozione che hai provato arrivando in Praza do Obradoiro trova di nuovo sfogo, ma stavolta sono lacrime di gioia. Sei felice di stare lì, di perderti tra i vicoli di Santiago – avrai ancora tutta una settimana per scoprirla; felice di esistere, felice e basta, con la tua voce che per quanto menomata ti ha consentito di arrivare fin lì, i tuoi limiti superati, i tuoi rancori svaniti, l’anima momentaneamente tersa come il cielo verso cui alzi lo sguardo – da quanto tempo non guardavi in su, in alto, Suseia... goditi dunque questo beato momento.
E come Estate
Prima d’ora, per te Estate è sempre stata sinonimo di sole, mare, nuotate, Odio l’Estate e Vamos a la Playa e ombrelloni-oni-oni in sottofondo, in loop. Le vacanze estive, per te non potevano assolutamente prescindere da tutto ciò: altrimenti che estate è?
Questa però non è una vacanza, è un Cammino, quindi quest’estate sarà per forza diversa: faticosa, montuosa, a tratti piovosa, in altri ombreggiata, spesso campagnola; un’estate in cui l’unica acqua in movimento che vedrai sarà quella dell’Oceano Atlantico, in cui non oserai immergere nemmeno la punta dei piedi, presa da reverenziale timore di fronte alla sua magna irruenza.
– “Addirittura con la felpa? Beata te, qui fa un caldo da schiattare!” si meravigliano i tuoi contatti Whatsapp, meravigliandosi del selfie che diffondi urbi et orbi la mattina di Ferragosto.
Certo, a ora di pranzo farà più caldo e dovrai togliertela: ma sarà un caldo sopportabile, un caldo galiziano.
Questo cuore dell’estate, stai per trascorrerlo tra sconosciuti, in posti sperduti, a fare... niente, si spera soltanto a chiacchierare e poltrire, e con una piccola grande soddisfazione da coccolarti: se oggi – Ferragosto! la data alberghiera più difficile e affollata in assoluto! – avete trovato da dormire, è per merito tuo, che hai osato fare qualcosa che da mesi eviti di fare.
“¡Hola! Somos cinco peregrinas, ¡cinco! Cinque. Five. Sì, ¡Yes! Queremos entrar ne l’Albergue aquì, ma es cerrado, chiuso, ¡closed! Es posible? Se puede...?”
– How brave!, ride la signora canadese che insieme alla figlia ti ascolta ciarlare al telefono con la tua sottospecie di voce; il cartello attaccato alla porta sbarrata dell’ostello intimava infatti di chiamare non prima delle 13 quel numero per prenotare, ma sono le 11 e siete stanchi morti, bisognosi di riposare, lavarvi, mangiare ecc.
“Momentito, por favor...” il tipo ti passa il figlio che mastica l’inglese, e gli rispieghi la situazione: siete in cinque, anzi in sette, aggiungi, vedendo arrivare lemme lemme altri due pellegrini sfranti; ti risponde che manderà subito qualcuno ad aprirvi.
Subito, ovvero due ore dopo, quando vi sarete già rassegnati a sdraiarvi per terra e a godervi per quanto possibile quel Ferragosto in mezzo ai campi, nel silenzio, nel vento e nel sole, circondati da panchine di pietra e da un murales pellegrino che dice tutto.
Quando finalmente arriverà una donna a sbloccarne la serratura, l’ostello si rivelerà una spartana casamatta in cemento, fornita dello strettissimo necessario: letti a castello, docce nude, micropiano cottura con pentole ammaccate, rastrelliera per calzature e, lusso supremo, un distributore automatico di bibite e snack.
E per pranzare? – “Comidar? Restaurant?” chiedete alla vostra salvatrice. – “¡Piedes!” replica sorridendo, mimando con le dita un passo dopo l’altro – Oh no, ancora! – “¡Poquito, poquito!” giusto un paio di chilometri fino all’unico ristorante della zona, dove un’ostessa scontrosa vi strapazzerà con piglio da monopolista, al punto che deciderete che per cena, piuttosto che tornare a mangiare da lei, chiamerete il takeaway del paese più vicino (si fa per dire) per farvi portare a domicilio sette porzioni della specialità locale: bocconi di maiale marinato con patatine fritte che, durante il tragitto, avranno fatto in tempo ad ammollarsi per bene sprofondando nella salsa della carne, blahhh! E un dessert tipo panna cotta, ma non proprio panna cotta, più un latte rappreso al caramello... dulce de leche, esatto. E il pane, dov’è il pane? Non c’è. Come non c’è? Eh non lo sai ancora che qua mica si usa, il pane di contorno ai piatti. Bisogna chiederlo espressamente, chiederlo a parte. Azz!
Le due canadesi non battono ciglio, ma il vostro gruppetto di italiani avverte tutto il peso delle proprie tradizioni culinarie. Certo, ripulirete anche voi le vostre vaschette di stagnola fino al più remoto degli angoli, ma rievocando lauti banchetti vacanzieri – ah, che sontuosi, memorabili pranzi di ferragosto conditi di insalate di riso e timballi, arrosticini e fritture di pesce, caprese e cocomero... ma va bene così, sei felice di questa estate atipica, di stare lì tra perfetti sconosciuti ancora un po’ affamati in quel casermone perso tra le campagne; di solite torride estati con sole mare e nuotate e sottofondo di Odio l’Estate e Vamos a la Playa e ombrelloni-oni-oni, in fondo ne hai avute a sazietà.
Altro di
L’autrice
Franca Di Muzio. Lettrice precoce e onnivora, già copywriter e pubblicista, ora insegnante di sostegno. Ha pubblicato racconti in antologie e su riviste e il libro Lo scopriremo solo scrivendo. Il suo sito: www.copydimare.com.