| di Franca Di Muzio |
Acquistare un libro a ridosso dell’ora di cena, rientrare a casa e trascorrere le ore successive a cucinare, mangiare, lavarti, prepararti per la notte con una mano sola, perché l’altra è impegnata a tenere aperto il memoir che non puoi fare a meno di continuare a leggere. Quando una storia ti prende a questo modo, risucchiandoti dentro il suo mondo, e nei giorni successivi non resisti a parlarne ai tuoi amici, lettori più e meno forti, di quanto sia forte, poi non ti resta che azzardare una recensione.
Alessandra Mureddu l’ho conosciuta qualche anno fa, a un corso di scrittura autobiografica tenuto da Andrea Pomella; condividevamo con altri la sfida del mettersi a nudo sulla pagina, cercando le parole per raccontare al meglio la propria verità. Di pomeriggio in pomeriggio, presto fu chiaro a tutti quanto Alessandra fosse la più impavida e talentuosa tra noi, tanto che il suo racconto di fine corso, uscito su un’importante rivista letteraria, attirò l’attenzione di quella che oggi è la sua casa editrice.
Azzardo (Einaudi, 2023, p. 144) prende le mosse da quel racconto, che noi corsisti ascoltavamo in anteprima dalla viva voce dell’autrice; la stessa, inconfondibile voce che pochi giorni fa ho risentito vibrare a ogni pagina, sostenuta da una lingua affilata e precisa come un bisturi, una lingua che nulla concede alle facili emozioni, a quegli effetti speciali che troppo spesso inducono in tentazione gli scrittori esordienti. Eppure di emozioni ce ne sarebbero tante, se consideriamo i temi sfiorati, evocati, sviscerati da Alessandra in poco più di cento pagine; su tutti la dipendenza dal gioco d’azzardo, ma anche da internet, dagli amori difficili – compreso quello per il padre, avvocato di successo che per primo soccombe al fascino del gioco, blindandosi in un fortino di silenzi e frasi lapidarie cui la figlia risponderà con quell’“Io ti salverò” tanto caro alle donne.
Ci si identifica subito, in questa crocerossina che ben presto fallisce la sua missione impossibile e che – passatemi il calembour – si mette in gioco con tutta se stessa, finendo per superare il padre nella dipendenza, vivendola in maniera persino più totalizzante. Pagina dopo pagina le sediamo accanto, la vediamo infilare denaro nelle slot-machine, calamitata dai loro schermi ipnotici che affollano tanto le squallide sale da gioco di periferia, quanto gli esclusivi casinò oltre confine in cui trascorre le vacanze estive; la seguiamo nei desolanti Compro Oro, tramite i quali alimenta ulteriormente la sua schiavitù. Lucida e consapevole, ma suo malgrado succube, ci metterà nove anni per uscirne; anni durante i quali lei, che aveva tutto, perde quasi tutto. Avvenenza: soprannominata «Giotto» per il suo culo tondo, dotata di «un corpo di marmo» che la menopausa non ha scalfito, ingrassa rapidamente di venti chili. Ricchezza: prosciugando il suo conto corrente e vendendo i gioielli di famiglia. Affetti e relazioni: isolandosi da amici e colleghi, riducendosi a un’ombra «grassa, sola, sporca», con unico pensiero in testa – giocare, anzi rovinarsi, perché «sei un errore e vuoi dimostrartelo».
Riesce invece a tenersi stretto il suo lavoro in una Concessionaria Giochi (!), in un equilibrio mentale sempre più precario, finché qualcuno le consiglia i gruppi di autoaiuto per giocatori compulsivi. Dopo qualche mese di frequentazione, dotata di «quello che definivano “il dono della disperazione”», Alessandra riuscirà a imporsi l’astinenza, tra ricadute in sala da gioco («l’odore mi abbranca come un parente importuno a una cena della Vigilia») e tentazioni di altro genere, ghiotto boccone per manipolatori che fiutano immediatamente la debolezza di una donna in lotta con se stessa. La protagonista-narratrice è molto abile nel descrivere il potere salvifico del Gruppo, la fratellanza dei tanti che ti sostengono ma anche le ambiguità dei pochi che si approfittano di te, illuminando in brevi, folgoranti episodi anche il lato oscuro dell’aiuto.
Figlia unica amata troppo e/o male, la nostra eroina si lega agli uomini sbagliati ma strada facendo li smaschera, emancipandosi fino a restare solaconuncane (il suo nick su Twitter), madre amorevole della cucciola Brenda; sola nell’abisso del gioco, sola alle prese con il carico di genitori che invecchiano, sola ma pur sempre parte del Gruppo, laica confraternita che non abbandonerà più. Grazie al suo sostegno, a quello della sua analista e alla terapia farmacologica, Alessandra rinasce infine a una vita normale, accettandone non senza fatica la banalità, l’assenza dei picchi di adrenalina che la facevano sentire viva, ma finalmente libera e padrona di se stessa: «Non gioco più ma ho vinto io», afferma con una consapevolezza che ricorda quella di Anne Sexton in Tu, Dottor Martin: «Un tempo ero bella. Ora sono me stessa». Padronanza di sé che si rispecchia nella padronanza assoluta del linguaggio, in una prosa serrata e lirica che tiene incatenato il lettore fino all’ultima riga.
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