Sul vinile
Un saggio storico sulla produzione della plastica per capire le ragioni del disastro ferroviario di East Palestine e sensibilizzare sui rischi per la salute umana e ambientale
| Rebecca Altman, «Orion Magazine», aprile 2023 |
Il 25 novembre 2024 si è aperto a Busan, Corea del Sud, l’INC-5, il quinto e definitivo ciclo di negoziati per un trattato globale sull’inquinamento da plastiche (leggi qui). Rebecca Altman, ricercatrice del settore, al lavoro su un libro proprio su questo argomento, in un excursus storico sottolinea la necessità di esaminare l’intero processo produttivo a monte, e non solo le conseguenze a valle, quando si parla di plastiche e degli effetti nocivi sull’uomo e l’ambiente.
Il treno merci deragliato nel febbraio 2023 a East Palestine, nei pressi del confine fra Ohio e Pennsylvania, trasportava diversi tipi di verdure congelate, insieme a liquore di malto, semolino e alcune sostanze chimiche utilizzate nella produzione della plastica, come il cloruro di vinile monomero (CVM).
Possiamo immaginare il cloruro di vinile monomero come il vagone di un treno: mettendone diversi in fila, uno dopo l’altro, si ottiene un treno che si chiama cloruro di polivinile ed è la plastica PVC, un altro materiale che – stando alla lista di carico – era trasportato nei vagoni di quello sciagurato treno.
Di PVC sono fatti canne e tubi dell’acqua, tende da doccia, rivestimenti e pavimenti per interni e anche giocattoli. Di PVC sono i tubicini e le sacche delle flebo. E, per gli audiofili, anche i dischi, quelli che chiamiamo comunemente “vinili”, anche se a volte invece sono stampati nel polistirene.
Il CVM è cancerogeno. Bruciare il cloruro di vinile, come bruciare il PVC, crea le condizioni per la formazione di sostanze chimiche ancora più dannose: le diossine.
Ci sono molte aziende che producono PVC. Quello sul treno deragliato era contenuto in vagoni con l’etichetta ROIX: nel gergo ferroviario significa che i vagoni erano di proprietà della Shintech, «il maggiore produttore mondiale di PVC» come si legge sul sito dell’azienda, una controllata al 100% della società giapponese Shin-Etsu. Negli Stati Uniti gestisce impianti per la produzione di PVC a Freeport, in Texas, e ad Addis e Plaquemine, in Louisiana.
Anche le aziende che producono cloruro di vinile sono molte. Almeno due dei vagoni della Norfolk Southern che trasportavano CVM sono riconducibili – per via dell’etichetta OCPX – alla OxyVinyls, una divisione di OxyChem, che a sua volta fa parte di Occidental Petroleum. L’impianto della OxyVinyls che produce cloruro di vinile si trova a Deer Park, in Texas, nei pressi dello Houston Ship Channel, dove all’inizio del 2023 si è abbattuto un tornado che ha costretto l’impianto a una chiusura temporanea.
Talvolta le industrie che producono cloruro di vinile e quelle che producono PVC sono vicine, mi ha spiegato Jim Vallette, che lavora per Material Research e ha mappato questo comparto industriale. Per esempio, Olin e Dow hanno impianti vicini a quelli della Shintech che producono PVC rispettivamente in Louisiana e in Texas e forniscono loro CVM.
In altri casi, il cloruro di vinile viene inviato a impianti lontani per via ferroviaria, lo stesso metodo impiegato per fornire il PVC finito a chi lo lavora e lo modella.
Non è chiaro quale percorso stesse compiendo il treno deragliato a East Palestine.
Gli ingegneri chimici, proprio come quelli ferroviari, parlano di percorsi per riferirsi ai differenti metodi mediante i quali gli idrocarburi possono essere condotti alla stessa destinazione.
Ci sono diversi percorsi per produrre cloruro di vinile.
Tutti però si servono del cloro.
Il cloro è la candeggina. Sono lenzuola e fogli bianchi. È un disinfettante. È il gas che durante la prima guerra mondiale correva sui campi di Ypres prima di infilarsi nelle trincee e nei polmoni di soldati ignari.
Nessun altro processo industriale usa più cloro di quello che produce il PVC.
Il cloro si fa con la salamoia, quindi con il sale, da cui il cloro dev’essere isolato.
Per isolarlo, storicamente si utilizzava in prevalenza il mercurio.
Poi si è passati all’amianto.
Oggi l’industria del cloro si sta orientando verso l’uso di membrane derivate da una sostanza chimica della famiglia dei PFAS (sostanze per- e poli-fluoroalchiliche). Si tratta di un gruppo di almeno 12.000 sostanze, le più studiate delle quali sono associate a un gran numero di effetti collaterali, tumori inclusi.
L’amianto è una sostanza cancerogena, ha anche un suo tumore caratteristico: il mesotelioma.
Il mercurio è un metallo pesante e, sotto forma di metilmercurio è teratogeno (significa che può causare anomalie e malformazioni fetali, soprattutto a carico del cervello e del sistema nervoso, come mi ha suggerito il dottor Ted Schettler, mio collega presso lo Science and Environmental Health Network). È anche una sostanza neurotossica e inquinante, al punto che il suo utilizzo industriale è regolato da un trattato delle Nazioni Unite: la Convenzione di Minamata.
La convenzione prende il nome da una città e da una baia situate su un’isola del Giappone meridionale.
Anche in questo caso c’è una malattia caratteristica, la sindrome di Minamata, anche se alcune delle persone che ne sono affette preferirebbero che la si chiamasse per quello che è, ovvero un’intossicazione cronica da metilmercurio industriale.
La comunità di Minamata è più spesso associata al mercurio che al materiale per la cui produzione il mercurio veniva usato, ovvero (ma non solo) i precursori chimici del cloruro di vinile e del vinile.
Nel 2013 centoquaranta nazioni si sono riunite in Giappone per adottare la Convenzione di Minamata. Per ratificarla sono bastate le firme di cinquanta Stati.
Il Giappone non l’ha ratificata fino al febbraio del 2016.
Il deragliamento del treno merci a East Palestine è avvenuto quasi nello stesso giorno sette anni dopo.
Ma non ho finito di spiegare i diversi percorsi tramite cui si ottiene il cloruro di vinile.
Lo storico Morris Kaufman, oggi scomparso, ha iniziato a studiare la storia della produzione del PVC all’Imperial College di Londra negli anni ’60 e ci ricorda che i primi brevetti del processo furono registrati nel 1912. I tentativi tedeschi di produrre PVC su larga scala non portarono però a un prodotto commercialmente accettabile; così, tredici anni dopo, quei primi brevetti furono lasciati scadere. In seguito, una manciata di aziende si mise di nuovo a fare ricerca e sviluppo, rendendo le origini del PVC internazionali, diffuse e difficili da tracciare con precisione, conclude Kaufman.
Negli Stati Uniti la Union Carbide (poi acquisita dalla Dow, che in seguito si è fusa con la DuPont e poi si è riorganizzata ed è rinata come la “nuova” Dow) iniziò a produrre cloruro di vinile nel 1929 presso un complesso petrolchimico – una novità assoluta per l’epoca – situato lungo il fiume Kanawha, un affluente dell’Ohio, a sua volta affluente del Mississippi, il quale si getta infine nel golfo del Messico.
La produzione di PVC iniziò l’anno successivo, ma la plastica ci mise un po’ a prendere piede. La Union Carbide si era installata lungo il Kanawha per approfittare delle riserve di gas naturale degli Appalachi, del cui sfruttamento l’azienda è stata una pioniera. Nei pressi esisteva già, dai tempi della prima guerra mondiale, un impianto per la produzione di cloro.
La ricerca scientifica sulla tossicità del cloruro di vinile è iniziata subito dopo, i primi studi sono apparsi durante gli anni ’30.
Il secondo percorso, quello che parte dal petrolio, rappresenta il metodo storico di produzione del cloruro di vinile che si utilizzava lungo la costa americana del golfo del Messico.
Il terzo percorso parte invece dal carbone.
Quello del carbone fu il percorso scelto, a partire dal 1932, dall’azienda giapponese oggi nota come Chisso Corporation per produrre cloruro di vinile a Minamata. Dal calcare estratto da una cava situata poco a nord della cittadina e dai giacimenti di carbone presenti nel nord della regione di Kyushu l’azienda derivava un carburo. Dal carburo passava all’acetilene e da quest’ultimo, grazie a un catalizzatore derivato dal mercurio, all’acetaldeide, per arrivare quindi al cloruro di vinile e anche, mediante un processo separato, a un plastificante chiamato diottilftalato (abbreviato DOP), che viene utilizzato per ammorbidire il PVC e altre plastiche.
Quello stesso anno l’azienda iniziò a riversare i suoi scarichi ricchi di mercurio nella baia di Minamata.
Il mercurio avvelenò l’acqua, quindi i pesci, e poi i pescatori e le loro famiglie. Gli ultimi a essere avvelenati furono i bambini nati da madri avvelenate dal mercurio.
Michiko Ishimure, una scrittrice originaria di Minamata e spesso paragonata a Rachel Carson, scrive: «Ho avuto una visione, cercavo di inghiottire il capitalismo giapponese».
A partire dagli anni ’60 Ishimure ha pubblicato, con grande successo, una serie di opere di nonfiction narrativa dedicate al disastro. Il primo volume si intitola Kugai jōdo (Paradiso nel mare di dolore). Per decenni Ishimure si è battuta per la gente di Minamata, ma «gli anni, uno dopo l’altro, seccavano e si staccavano di netto, come le foglie morte o le cellule cerebrali delle vittime di avvelenamento da mercurio», scriveva.
La sua attività di testimonianza e di scrittura ha avuto la meglio su di lei: tutti «questi momenti storici estremamente significativi mi sono rimasti in gola». Si sospetta che anche lei abbia sofferto di problemi nervosi causati dal mercurio.
Sebbene il primo caso di sindrome di Minamata sia stato riconosciuto già nel 1956, solo nel 1968 il governo giapponese ha ammesso ufficialmente «che la causa della malattia era il metilmercurio proveniente dallo stabilimento della Chisso», mi ha raccontato Timothy George, professore emerito di storia all’Università di Rhode Island e autore del libro Minamata: Pollution and the Struggle for Democracy in Postwar Japan.
La Chisso smise di utilizzare il mercurio nel processo di produzione dell’acetaldeide proprio nei primi mesi di quell’anno.
«L’azienda non ammise ufficialmente le proprie responsabilità fino al 1973, quando perse una causa intentata dai malati e fu costretta a pagare quello che ai tempi fu il più sostanzioso indennizzo della storia giudiziaria giapponese», ha aggiunto George.
A quella causa ne seguirono altre.
Infine si arrivò alla Convenzione di Minamata, che contiene accordi per l’eliminazione su scala globale dell’uso del mercurio nella produzione di cloro, cloruro di vinile e acetaldeide.
«È incredibile», dice Vallette, «che il percorso mercurio-acetilene sia ancora utilizzato (e sempre di più) nella regione uigura», nel nordovest della Cina, dove il PVC viene prodotto grazie al lavoro forzato degli uiguri, molti dei quali sono musulmani.
Oggi, dopo che gli Stati Uniti hanno approvato lo Uyghur Forced Labor Prevention Act, le autorità doganali americane vietano l’importazione di pavimenti in vinile ricavati da plastiche prodotte in quelle fabbriche.
Tuttavia, «quelli sono probabilmente gli impianti di produzione della plastica più inquinanti al mondo», dice ancora Vallette. «Rilasciano oltre cinquanta milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno e continuano a utilizzare, e a disperdere nell’ambiente, enormi quantità di mercurio».
Nonostante la Convenzione di Minamata.
Secondo Vallette, questi impianti «necessitano di molta più attenzione».
Nel 2022 le Nazioni Unite hanno raccolto la comunità internazionale a Nairobi, in Kenya, dove, con il sostegno della stragrande maggioranza dei Paesi, si è deciso l’avvio di negoziati per arrivare a un trattato legalmente vincolante sull’inquinamento da plastica. Come modello, è stata indicata proprio la Convenzione di Minamata.
I negoziati sono cominciati ufficialmente in Uruguay nell’autunno del 2022, per poi proseguire a Parigi nel maggio del 2023, di nuovo a Nairobi nel novembre 2023, quindi a Ottawa nella primavera del 2024 e a Busan, in Corea del Sud, il novembre successivo.
Non è ancora chiaro se, oltre all’accumulo dei rifiuti a valle, verranno adottate misure volte a limitare anche gli usi tossici delle plastiche a monte.
Gli esperti in materia di plastica – io tra questi – hanno chiesto che il trattato metta un limite alla produzione di plastiche non essenziali, che tenga in considerazione i diritti umani, compreso il diritto a un ambiente domestico e di lavoro sicuro, e che spinga l’industria ad adottare processi di produzione più trasparenti e chimicamente meno complessi. In pratica: che fare di mercurio, amianto, PFAS e di tutte le altre sostanze tossiche già note che vengono utilizzate nella produzione della plastica? Sarà inoltre necessario decidere che cosa fare di monomeri come il cloruro di vinile, di plastiche come il PVC e di prodotti di scarto secondari come le diossine.
Il dialogo però si concentra più spesso sulle plastiche intese come rifiuti. Se il trattato dovesse adottare questa visione ristretta dei problemi posti dalle plastiche, ciò che è accaduto a Minamata e a East Palestine, quello che accade in Cina e lungo i corridoi mondiali di transito delle plastiche non avrà il giusto peso all’interno di uno strumento ampio che invece potrebbe essere utilizzato per prevenire futuri disastri e future crisi di lunga durata ai danni delle comunità che vivono lungo le rotte di produzione, trasporto e manipolazione delle plastiche.
Il sistema delle plastiche si regge su basi tossiche. Su sostanze chimiche come il cloruro di vinile monomero. E sui processi che creano i precursori necessari a produrre i monomeri, utilizzati poi per produrre le plastiche. Questo sistema diventa visibile solo quando un treno che collega i vari punti che compongono la vasta rete petrolchimica delle plastiche va a fuoco oppure, come è accaduto sempre in Ohio, viene dato volontariamente alle fiamme.
Il disastro di East Palestine ci ha permesso di capire quante sono le comunità circondate dalla plastica che hanno subito sia rilasci costanti di sostanze dannose sia disastri ambientali legati alla sua produzione. Quando si tratta di storia ambientale, spiega George, «non ci si può limitare alla storia di una singola piccola località. Ogni luogo è collegato a tutti gli altri».
A prescindere dal percorso reale che ha seguito, in un certo senso è come se il treno arrivato a East Palestine fosse passato da tutti i luoghi in cui il cloruro di vinile ha influito sulle vite e sui mezzi di sussistenza delle persone. Posti che non ho ancora nominato, come Illiopolis, in Illinois, dove un impianto per la produzione di PVC è esploso. O ancora impianti in Italia, o a Louisville, in Kentucky, i cui lavoratori sono morti di angiosarcoma. O in Belgio e Romania, dove coloro che si sono calati nelle vasche per pulirle sono stati costretti ad andare in pensione, con le dita irrimediabilmente deformate dall’acroosteolisi, una malattia rara che provoca il riassorbimento delle ossa. Luoghi come Morrisonville, Reveilletown e Mossville, in Louisiana, che sono stati inquinati dalla produzione di vinile, e le cui comunità a prevalenza nera, nonostante le molte proteste organizzate per proteggerle, alla fine sono state costrette ad andarsene.
Luoghi come Minamata.
«Minamata avrà mai fine?» scrive George. «Sono tante le soluzioni “complete e definitive” che si sono rivelate largamente insufficienti».
Il documentarista Kazuo Hara dice che per la gente di Minamata, «la storia è tutt’altro che finita». La realizzazione del suo documentario Minamata Mandala, uscito nel 2020, ha richiesto oltre un decennio. Il film, incentrato sulla storia degli abitanti di Minamata, alcuni dei quali continuano a girare il mondo in qualità di kataribe (cantastorie), dura sei ore.
Sempre nel 2020, a Berlino è stato presentato un film intitolato Minamata e basato grossomodo su fatti storici. Il protagonista era Johnny Depp, nei panni del fotogiornalista americano W. Eugene Smith, che negli anni ’70, assieme ad Aileen Smith (interpretata dall’attrice Minami), realizzò un reportage per la rivista «Life» a favore degli abitanti di Minamata, per aiutarli a sostenere la loro causa. A discapito di chi a Minamata e altrove subisce la lunga eredità del mercurio e dei vinili, nel 2022 l’uscita del film è purtroppo passata in secondo piano rispetto alle vicende giudiziarie di Depp.
Mentre cercavo dettagli sui metodi di produzione della Chisso mi sono imbattuta in qualche notizia sul film e sulla sua colonna sonora, opera del celebre compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, vincitore di due Golden Globe, un Oscar e un Grammy e morto per un tumore proprio mentre scrivevo questo saggio.
Ascoltando la colonna sonora di Minamata a ripetizione, la mia scrittura ha assunto una regolarità insolita per me, paragrafo dopo paragrafo, come quella delle ruote sui binari. L’opera di Sakamoto è una riflessione cupa, profonda e trascinante sulla dimensione del disastro industriale e sui decenni di lavoro di cura e di attivismo che Minamata rappresenta.
Di recente, la colonna sonora è stata rilasciata – non scherzo – anche in vinile.
Traduzione di Alessandra Neve
Credits
Il testo qui riportato in traduzione, con il consenso dell’autrice, è stato pubblicato ad aprile 2023 sul sito della rivista «Orion Magazine» con il titolo On vinyl. L’immagine in alto è tratta da Unsplash e il suo autore è Eric Krull.
L’autrice
Rebecca Altman (foto credit Emily Belz) è una sociologa ambientale laureata alla Brown University e un membro del consiglio direttivo del think tank americano Science and Environmental Health Network, con il quale ha lavorato a progetti riguardanti le infrastrutture dei combustibili fossili, il diritto delle future generazioni a un pianeta vivibile e la cura delle comunità affette da contaminazioni croniche. Ha tenuto corsi sulla salute e la giustizia ambientale alla Tufts University e le sue ricerche accademiche sono state pubblicate da «The American Journal of Public Health», «Environmental Health Perspectives» e «Journal of Health and Social Behavior».
Il suo lavoro di scrittrice riguarda la storia sociale della chimica, delle plastiche e dell’inquinamento e l’eredità ambientale, ovvero ciò che trasmettiamo da una generazione all’altra. Rebecca sta attualmente lavorando a un libro su questi temi per Scribner Books e negli ultimi anni i suoi saggi sono apparsi su «Science», «The Atlantic», «The Washington Post», «Aeon Magazine», «Orion Magazine», «Topic», «Terrain», «Brain», «Child» e «ISLE. Interdisciplinary Studies in Literature and Environment».
La traduttrice
Alessandra Neve lavora con tre lingue (inglese, francese e spagnolo), per quotidiani, periodici ed editori. Traduce saggistica, con una forte inclinazione per l’approccio e lo stile giornalistici, e meno spesso ma molto volentieri fa traduzioni per il doppiaggio. Parla di nonfiction e giornalismo narrativo in un blog, La biblioteca di Miss Otter, nel quale recensisce libri, reportage, documentari e podcast e in parallelo svolge un’attività di scouting, proponendo agli editori libri scritti da giornalisti.