Il re del ful
Lo stufato di fave è il protagonista indiscusso di questo viaggio nella gastronomia, nelle tradizioni e nella storia del Libano meridionale
| Zahra Hankir, «Roads and Kingdoms», 6 settembre 2017 |
Lo stufato di fave, o ful medames, non è solo un piatto. È un rituale culinario. Le fave schiacciate sono insaporite con aglio, succo di limone e olio d’oliva e poi guarnite con dadini di pomodoro e prezzemolo. Il risultato è uno stufato denso e fragrante che si mangia raccogliendolo con pezzetti di pita appena sfornata ed è normalmente servito insieme a un elaborato assortimento di antipasti, i mezzeh.
Negli anni ’90, quando ero bambina e vivevo a Sidone, una città portuale del Libano meridionale, il ful era dappertutto. Lo mangiavamo a colazione, a pranzo, a cena e anche durante il suhur, il pasto consumato prima dell’alba durante il Ramadan. Poteva capitare che io e i miei cinque fratelli lo mangiassimo anche più volte al giorno.
Tale frequenza era in parte dovuta alla tradizione. In arabo del ful si dice che è «la colazione del ricco, il pranzo del bottegaio e la cena del povero». In pratica, il ful è popolare in tutti i paesi del mondo arabo e in ogni classe sociale.
Ma il ful occupa anche un posto speciale all’interno della mia famiglia. Per tutti gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, mio nonno, Ahmed Mustafa Hankir, ha gestito il Ful Abu Adel, uno dei ristoranti più celebri di Sidone se non addirittura di tutto il Libano meridionale. Ricchi o poveri, rifugiati palestinesi o politici libanesi, musulmani o cristiani: non aveva importanza. Erano moltissimi i sidoniani che affollavano il ristorante fin dal primo mattino.
Nel suo locale Abu Adel era il re. Il cliente non aveva mai ragione. Se qualcuno si azzardava anche solo a esprimere una preferenza, jeddo (mio nonno) rispondeva: «Lo mangi come piace a me, non a te», oppure: «Mangia e taci». E chi non apprezzava il suo atteggiamento drastico veniva invitato ad accomodarsi dai Soussi, la concorrenza, nel ristorante sull’altro lato della strada. I sidoniani dicevano che Abu Adel era sarbast, una parola turca che significa schietto e sfrontato.
Per molti il nome di mio nonno – Abu Adel (che significa ‘padre di Adel’) – evoca ricordi dei vecchi suk, dei caffè e del glorioso passato di Sidone. Un’epoca precedente al 1983, quando Israele ha invaso il sud del Libano e l’esercito israeliano, avanzando verso Beirut, ha preso Sidone. Gli aspri combattimenti hanno danneggiato parte della città e provocato la chiusura temporanea di alcuni locali.
Si dice che Abu Adel abbia cucinato, servito e mangiato ful quasi ogni giorno della sua vita, dal 1918, quando aveva sedici anni, fino al 1980, due anni prima di morire. Chiudeva il ristorante solo durante la prima giornata di Eid al Adha e Eid al Fitr, più per onorare con la preghiera le festività musulmane che per riposarsi.
Nel fine settimana gli studenti dell’American University di Beirut venivano fin dalla capitale per cenare nel ristorante di jeddo, apprezzato anche per la sua pulizia. Mi hanno raccontato che Abu Adel, nei momenti di pausa, scherzava con gli studenti e diceva loro che il ful era masameer el rekab (‘viti per le ginocchia’), un cibo che li avrebbe resi forti, come il bestiame. Gli studenti lo pagavano con generosità e grazie ai proventi aggiuntivi, oltre a mantenere i suoi quattordici figli, Abu Adel riusciva a sfamare gli orfani del quartiere.
Fra i clienti del ristorante si annoverano Rafiq el-Hariri, ex primo ministro libanese, e uno dei suoi successori, Fouad Siniora; entrambi hanno frequentato il Ful Abu Adel quando erano allievi di una scuola dei paraggi. La reputazione di jeddo non aveva confini. Prima di aprire l’attività a Sidone aveva vissuto ad Haifa, dove aveva gestito il suo primo ristorante. Si narra che i leggendari cantanti egiziani Umm Kulthoum e Mohamed Abdel Wahab cenassero da lui quando erano in tournée in Palestina.
Non ho mai conosciuto il nonno – è morto prima che nascessi – ma gli altri ristoratori di Sidone mi hanno raccontato molte cose di lui. «Tuo nonno», dicono i veterani del ful, «era il re del ful. Il più grande».
Jeddo nacque a Sidone nel 1902 e meno di due anni dopo sua madre morì di malattia. Più o meno nello stesso periodo il padre partì per lo Yemen per andare a combattere nelle file dell’impero ottomano contro l’esercito britannico; sarebbe ritornato solo dopo più di dieci anni.
Abu Adel imparò ben presto a cavarsela da solo e il ful divenne un elemento fondamentale per la sua sopravvivenza. Apprese le basi della preparazione del piatto da una famiglia di Sidone che gli offrì un lavoro quando era ancora un ragazzino.
Fu però in Palestina che mio nonno iniziò a guadagnare con il ful. Jeddo emigrò ad Haifa nel 1918: raggiunse una zia che aveva preso in affitto un edificio decrepito e ospitava i sidoniani che si trasferivano in città in cerca di lavoro.
Quello stesso anno Haifa fu conquistata dagli inglesi. Grazie anche a una diramazione della ferrovia dell’Hegiaz inaugurata durante il dominio ottomano, sotto il mandato britannico Haifa prosperò e divenne la porta verso l’Arabia Saudita. La città veniva spesso chiamata Amerka el ’areebe, ‘l’America vicina’. Molti libanesi vi si trasferirono in cerca di fortuna.
Il primo socio in affari di jeddo fu un mulo. Abu Adel preparava il ful durante la notte, poi lo versava dentro i contenitori appesi a un fianco del mulo (quelli sull’altro fianco erano riservati all’hummus) e andava a venderlo lungo le strade senza nome di diversi quartieri dentro e fuori Haifa, spingendosi fino ai villaggi di Hawasa e Balad al-Shaykh.
Da giovane Abu Adel era noto per la sua bellezza. Portava un paio di baffi eleganti e raramente si mostrava in giro senza il fez. La gente dei quartieri lo chiamava bayaa’ el ful, il ‘venditore di ful’. Col tempo intorno a lui si creò un gruppo di clienti affezionati che si presentavano direttamente con le loro ciotole, nelle quali Abu Adel versava mestoli di ful.
Jeddo vendette ful a dorso di mulo per dieci anni, finché non riuscì a mettere da parte il denaro sufficiente per comprare un terreno ad Haifa e costruirvi una casa. Infine, nel 1928, aprì un ristorante di ful in al-Muluk Street, conosciuta anche come Stanton Street.
Nel 1948, durante la battaglia di Haifa, Abu Adel fu costretto ad abbandonare la casa e a unirsi all’esodo dei palestinesi. Tornò nella sua Sidone con moglie e figli per ricostruire da capo la sua vita e aprire un altro ristorante di ful.
Fuggendo verso il Libano, dovette lasciare in Palestina tutto quello che possedeva. Portò con sé solo due valigie piene di sterline palestinesi: il denaro che aveva accumulato gestendo il ristorante. Quando fu chiaro che non avrebbe più potuto riportare la famiglia in Palestina, usò quel denaro per aprire un’attività a Sidone.
Abu Adel iniziava a lavorare all’alba, portando con sé ogni volta due o tre di quelli che all’epoca erano i suoi sette figli. Lo accompagnava spesso mio padre, nato a Sidone nel 1948, pochi mesi dopo la fuga della famiglia dalla Palestina
Quando jeddo andava al mercato ortofrutticolo, assegnava un compito specifico a ciascuno dei figli. Uno sbucciava le cipolle, schiacciava l’aglio con mortaio e pestello e staccava le foglioline di menta dagli steli; un altro mescolava le fave – quasi trenta chili – che erano rimaste a sobbollire per tutta la notte in un pentolone di rame. Un terzo andava al mercato a comprare sale e kerosene.
Spesso, quando il pentolone di rame usato per cuocere il ful era vuoto, mio padre e suo fratello Nabil lo portavano in spiaggia e lo pulivano con sabbia, sassi e succo di limone. Abu Adel, dice mio zio Nabil, lo considerava pulito solo quando lo vedeva brillare.
Durante la giornata i figli servivano ai tavoli, sotto lo sguardo severo del padre che cucinava e impiattava (Abu Adel faceva tutto da solo: persino i cetrioli sottaceto, anziché comprarli, li preparava lui). La sera i figli lavavano piatti, posate e pavimenti assieme al padre. La maggior parte delle volte non rincasavano prima delle otto.
Per far passare il tempo, durante la giornata, mio nonno ascoltava registrazioni di versi del Corano dalla sua grande radio. Abu Adel era un musulmano osservante: quando morì, la sua zbiba (in arabo ‘uva passa’, il callo che si forma sulla fronte dei devoti) era vistosa, perché si era chinato moltissime volte a toccare il suolo con la fronte durante la preghiera.
La parola medames è di origine copta, significa ‘sepolto’, forse perché le fave vengono cotte dentro una grande urna. Nel linguaggio colloquiale il significato comune di medames è ‘stufato’. Qualcuno fa risalire le origini del ful all’Egitto dei faraoni ma, secondo l’Encyclopedia of Jewish Food di Gil Marks, la prima testimonianza della sua preparazione è una scorta di fave secche rinvenuta in un sito neolitico nei pressi di Nazareth.
Le ricette del ful sono molto varie ma prevedono tutte una preparazione molto laboriosa. Le fave vengono prima messe in ammollo e poi trasferite in una grossa pentola, la qidra. Vengono quindi portate a bollore e lasciate sobbollire a fuoco basso per almeno otto ore, solitamente durante la notte. Alla fine, le fave appaiono marroni e sono morbide quanto basta per poterle schiacciare.
La ricetta base del ful medames comprende fave, aglio, olio d’oliva, succo di limone e sale, con una guarnizione di pomodori e talvolta del cumino. In Egitto le fave vengono schiacciate quasi del tutto, mentre in Yemen vengono proprio ridotte in poltiglia, tanto che il risultato finale assomiglia più a una zuppa.
Nel Levante invece le fave rimangono più o meno intatte, vengono schiacciate solo in parte. Le ricette di ful levantine si somigliano tutte, fa eccezione solo quella siriana.
«Se dovessi scegliere un piatto che accomuna tutti i popoli del Levante, credo proprio che sceglierei il ful medames», dice Lara Ariss, chef libanese e autrice del libro Levantine Harvest. «La sua combinazione di sapori è semplice, ma il risultato è complesso, perché ogni ingrediente fa sentire la propria voce».
Il colorato assortimento di antipasti con cui a Sidone si accompagna il ful è composto con rigore: pita appena sfornata, pomodori a fette, scalogni, cetriolini sottaceto, rape sottaceto, ravanelli, foglie di menta, olive, cipolle e, naturalmente, olio d’oliva. Questa varietà di ingredienti aggiunge sapore alle fave, altrimenti scialbe. Vi compare spesso anche l’hummus ma, in questo particolare assortimento di mezzeh, il ruolo principale spetta al ful.
Sono molti i paesi arabi e africani che hanno fatto propria questa ricetta. Ogni nazione ha dato al ful i suoi accenti, elaborando varianti e aggiungendo ingredienti. La variante siriana può prevedere l’aggiunta di tahina e yogurt, mentre in Yemen talvolta si aggiungono alle fave i peperoncini verdi, che le rendono un po’ piccanti. Queste varianti si riflettono nei ristoranti di Sidone. Ogni chef ha la sua ricetta, che può prevedere l’aggiunta di cumino, pasta di peperoncino, coriandolo, prezzemolo o persino uova.
Il Malek el Ful della famiglia Soussi, fondato nel 1933, è uno dei ristoranti di ful più antichi di Sidone ed è stato a lungo concorrente di quello di mio nonno. I suoi chef, per dare alle fave un retrogusto acidulo, combinano succo di limone e di arance di Siviglia.
Il mese scorso, in un lunedì pomeriggio particolarmente caldo, il ristorante era relativamente affollato. C’erano quattro famiglie a cena nel piccolo ambiente. Per quattromila sterline libanesi (che nel 2017 equivalevano a 2,5 euro, oggi molto meno) è stato loro servito un generoso piatto di ful accompagnato da peperoni, cetriolini sottaceto, olive e altre verdure assortite.
Il proprietario, Hassan “Abu Fadi” el Soussi, 73 anni, è uno dei maggiori esperti di ful di Sidone. «Sono nato fra una ciotola di hummus e una di ful», dice. «Il ful ha definito tutta la mia vita».
Dice anche che a Sidone hanno lavorato molti chef specializzati nel ful, ma nessuno era come Abu Adel. «Una volta si è azzuffato con mio padre per una fornitura di olio d’oliva», ricorda ridacchiando. «Non c’era nessuno al suo livello».
Si dice che a Sidone, negli anni Cinquanta e Sessanta, il ful fosse comune come il latte: lo si consumava in tutte le case. Il ful in Libano è un affare di famiglia. Il padre, il figlio, gli zii e i fratelli di Abu Fadi hanno tutti lavorato assieme a lui.
«Il mestiere non si tramanda più come una volta e la competizione non è forte come quando c’era tuo nonno», dice Abu Fadi. «Vorrei che fosse ancora così. Oggi ci fanno concorrenza altri tipi di ristorante», soprattutto i fast food.
Nel 1980 la malattia impedì a mio nonno di lavorare e il ristorante venne chiuso. Oggi al suo posto c’è un piccolo negozio di alimentari. Spesso, per indicarlo, la gente del posto dice: «Quello dove prima c’era Ful Abu Adel».
I figli di Abu Adel hanno imparato da lui l’arte di preparare il ful, ma da un lato mio nonno era forse troppo orgoglioso per passare il testimone e dall’altro voleva che i suoi figli avessero una vita migliore della sua. Quando si è ammalato, era troppo tardi per assicurarsi che il locale restasse aperto.
Quando ho chiesto a mio padre perché non abbiano fatto uno sforzo per salvare il ristorante di famiglia, lui mi ha risposto semplicemente: «Era troppo difficile. Nessuno sapeva fare il ful come il nonno, nemmeno noi».
Traduzione di Alessandra Neve
L’autrice
Zahra Hankir, giornalista libanese-britannica, è nata nel Regno Unito durante la guerra civile libanese e ha vissuto a Sidone, Beirut, Dubai, New York, Manchester e Londra. Laureata in scienze politiche e studi mediorientali, ha lavorato per sette anni come corrispondente per «Bloomberg News» da Dubai e da Londra, poi ha vinto la borsa Jack R. Howard in giornalismo internazionale della Columbia Journalism School e oggi vive a Brooklyn e viaggia regolarmente in tutto il Medio Oriente, occupandosi di temi che incrociano politica, cultura e società. I suoi articoli si leggono su numerose testate: «Condé Nast Traveler», «The Observer Magazine», «The Times Literary Supplement», «BBC News», «Al Jazeera English», «Bloomberg Businessweek», «Los Angeles Times» e «The Rumpus». Ha curato la bellissima antologia Our Women on the Ground, una raccolta di saggi di diciannove delle migliori giornaliste mediorientali che raccontano che cosa significa essere una donna e raccontare la storia del proprio paese in guerra, mentre il suo secondo libro, Eyeliner: A Cultural History, è stato pubblicato da Penguin Books (US) e Vintage Books (UK) a novembre 2023. Il brano qui proposto in traduzione con il consenso dell’autrice è apparso originariamente su «Roads and Kingdoms».
La traduttrice
Alessandra Neve lavora con tre lingue (inglese, francese e spagnolo), per quotidiani, periodici ed editori. Traduce saggistica, con una forte inclinazione per l’approccio e lo stile giornalistici, e meno spesso ma molto volentieri fa traduzioni per il doppiaggio. Parla di nonfiction e giornalismo narrativo in un blog, La biblioteca di Miss Otter, nel quale recensisce libri, reportage, documentari e podcast e in parallelo svolge un’attività di scouting, proponendo agli editori libri scritti da giornalisti.