Il Giappone è ancora il futuro
Il Sol Levante è sempre il paese a cui guardare: lo scrive oggi Federico Rampini; lo confermano libri e film; lo diceva già nel 2001 lo scrittore William Gibson, l’inventore del cyberspazio
Pochi giorni fa Federico Rampini, nella sua rubrica Oriente | Occidente per il «Corriere della Sera», esprimeva “Un proposito per il 2025: riscoprire il Giappone. Ha tanto da insegnarci”. Questo, da più punti di vista, «a cominciare da come affrontare la denatalità e l’invecchiamento della popolazione: fenomeni che l’arcipelago ha conosciuto prima di ogni altro paese al mondo». In secondo luogo perché è «un laboratorio di sostenibilità, dove la cultura ambientalista si fonde con la capacità d’innovazione tecnologica». E, «terzo aspetto: è un paese che ha dovuto misurarsi con due concorrenti molto grossi, l’America e la Cina, e ha trovato il modo per ritagliarsi una vocazione originale in mezzo a quei due colossi».
Mentre leggevo questo interessantissimo articolo di Rampini, dentro di me pensavo alle coincidenze. 1) Gli unici due libri regalati a Natale sono ambientati proprio in Giappone: La locanda dei gatti e dei ricordi di Yuta Takahashi (Feltrinelli, 2024) e Tutti gli indirizzi perduti di Laura Imai Messina (Einaudi, 2024). 2) Il pomeriggio di Natale, al cinema, ho visto un ottimo film ambientato sempre in Giappone: Tofu in Japan di Mitsuhiro Mihara. E Perfect Days, del regista tedesco Wim Wenders, su un addetto alle pulizie dei bagni nella città di Tokyo, è probabilmente il film più bello che ho visto nel 2024. 3) Nel 2001, pochi giorni prima degli attentati dell’11 Settembre, ebbi la fortuna di tradurre per il settimanale «Internazionale» un articolo dello scrittore statunitense William Gibson uscito sul mensile «Wired» di quel mese, con il titolo “My Own Private Tokyo”, e dedicato naturalmente al Giappone, visto ancora come il massimo avamposto del futuro.
Da qui la decisione di riproporre per le lettrici e i lettori di «Scritture», come trampolino di lancio ideale verso il 2025, la traduzione di questo vecchio ma tuttora attualissimo articolo di un sempre preveggente William Gibson, l’uomo che, secondo la definizione di «Wired Italia» in un ritratto pubblicato a giugno, «quarant’anni fa ha immaginato il mondo in cui avremmo vissuto».
La capitale del domani
Tokyo è uno dei posti più folli e belli del mondo, lo specchio di un paese catapultato nel futuro da scosse continue
| William Gibson, «Wired», settembre 2001 |
Vorrei aver ricevuto mille yen per ogni giornalista che, negli ultimi dieci anni, mi ha chiesto se il Giappone è ancora futurologicamente attraente come sembrava negli anni Ottanta. Con tutti quei soldi prenderei uno di quei candidi taxi imbottiti di pizzo per il quartiere di Ginza e comprerei a mia moglie una piccola scatola dei cioccolatini belgi più costosi dell’universo.
Questa sera sono di nuovo a Tokyo per rinfrescare la mia conoscenza del posto, indagare la città del dopo-bolla, riappropriarmi professionalmente dell’utile vantaggio giapponese. Se, come me, credete che ogni cambiamento culturale sia fondamentalmente indotto dalla tecnologia, dovete prestare attenzione al Giappone. I motivi ci sono e sono fondamentali.
Linee di campo
Sul tardi ceno in un chiosco di spaghettini coperto di plastica e gestito da zingari – un classico delle strade di Tokyo, meglio che in Blade Runner – e osservo il cellulare del mio vicino mentre controlla i suoi messaggini. Sottilissimo, bianco perla, una complessa forma curvilinea, un aspetto totalmente effimero, sul suo schermo ribolle una versione in miniatura dello spettacolo di luci al neon di Shinjuku. Porta attaccato il ciondolo anticancro simile a un rosario: qui ce l’ha la maggior parte della gente, convinta che defletta le microonde, allontanandole dal cervello. Sembra eccezionale, per il bisogno di suggerimenti che ha un romanziere. Ma in realtà potrebbe non essere il futuro, rispetto ciò a cui sono abituato a casa, negli Stati Uniti.
Da quando scrivo, Tokyo è la bottega di suggerimenti più comoda che conosca: pura droga per gli occhi. Si possono osservare più strati cronologici di progettazione futuristica in una via di Tokyo che in qualunque altra parte del mondo. Come strati successivi di Domanilandia, quelli più vecchi cominciano ad apparire quando i più recenti cominciano a sfaldarsi.
Così il telefono bianco perla con il gadget anticancro viene arruolato direttamente tra i suggerimenti, ma che ne è del Giappone in sé? Passata la bolla, diversi successivi piani economici che perdono colpi nello stesso punto, uno scandalo politico dopo altro. È questo il futuro?
Sì. In parte, e non necessariamente nostro, ma certamente sì. I giapponesi amano le cose “futuristiche” proprio perché vivono nel futuro ormai da moltissimo tempo. La storia, quest’altra forma di finzione speculativa, spiega perché.
Vedete, in centocinquant’anni i giapponesi hanno ricevuto una serie di calci che, senza mai fargli toccare terra, li hanno scagliati da un profondo cambiamento all’altro, facendoli passare attraverso una serie di traumi nazionali di una stranezza inimmaginabile. Per il Giappone il Ventesimo secolo è stato come una corsa su una rampa di lancio missilistica, con accensioni spontanee e successive delle scorte di combustibile.
Hanno corso in modo strano, i giapponesi, e troppo spesso tendiamo a dimenticarlo.
Nel 1854, con il secondo sbarco del commodoro Perry, la diplomazia delle cannoniere mise fine a duecento anni di isolamento volontario, un deliberato prolungamento del sogno feudale. I giapponesi sapevano che l’America, per non essere respinta, era venuta a bussare con il futuro in tasca. Questo fu per il Giappone il momento tipico da cargo-cult, il culto dei cargo: l’arrivo della tecnologia aliena.
Le persone che guidavano il Giappone – l’imperatore, i signori e le dame della sua corte, i nobili e gli stessi ricchi – rimasero incantate. Probabilmente sembrò che questi visitatori emergessero da qualche strappo nel tessuto della realtà.
Per breve tempo dovettero diventare tutti totalmente pazzi, poi in qualche modo si fecero forza e si tuffarono. La Rivoluzione industriale arrivò tutta insieme, come un kit pronto all’uso: navi a vapore, ferrovie, telegrafo, fabbriche, medicina occidentale, la divisione del lavoro – per non parlare di un esercito meccanizzato e della volontà politica di usarlo. Poi questi americani tornarono a colpire la prima società industriale dell’Asia con la luce di un migliaio di soli – due volte, e molto duramente – e così la Guerra finì.
Al che gli alieni arrivarono in forze, questa volta con valigette e progetti, intenzionati a realizzare una riconversione culturale partendo dalla terra bruciata. Certi aspetti del nucleo feudale-industriale furono lasciati intatti, mentre altre aree della cultura politica e aziendale del paese vennero pesantemente innestate del tessuto americano, dando vita a forme ibride.
Nell’interzona
Qui, nel mio albergo Alasaka non riesco a dormire. Mi vesto e cammino verso Roppongi, in una notte dall’umidità non sgradevole, tra le ombre di un’autostrada multilivello, sporca dei gas di scarico, che sembra essere la cosa più vecchia della città.
Roppongi è un’interzona, la terra dei bar gaijin (per gli “stranieri”), sempre aperti fino a tarda notte. Sto aspettando a un passaggio pedonale quando la vedo. Probabilmente è australiana, giovane e servizievolmente bella. Indossa costosissimi e velatissimi indumenti intimi neri, e poc’altro, salvo qualche strato esterno nero – altrettanto velato, aderente e ultracorto – e dell’oro e dei diamanti per suggerire ai potenziali clienti l’idea giusta. Mi passa accanto, attraversando quattro corsie di traffico, conversando al telefono in un giapponese insistente. Il traffico si arresta ubbidiente davanti a questa gaijin che attraversa trionfante la strada sulle sue scarpe di camoscio nero con il tacco a spillo. La osservo mentre si dirige sul marciapiede opposto, con il deflettore anticancro del suo esile telefonino che oscilla in contrappunto verso le labbra. Quando cambia la luce del semaforo attraverso la strada e la osservo battere un cinque con un buttafuori che somiglia a Oddjob in un abito Paul Smith, la barba rasa con precisione micrometrica. C’è un lampo di bianco quando i loro palmi s’incrociano. Carta ripiegata. Origami di droga.
Questo fantasma della bolla, questo ricordo di Tokyo quando era il punto di riferimento di ogni prostituta sulla faccia della Terra, prosegue lentamente e quindi s’infila in una porta vicino al Sugar Heel Bondage Bar. L’ultima volta che sono venuto qui era proprio il clou di quell’era, poco prima dell’inizio della contrazione, quando i tipi come lei erano una legione. È della vecchia scuola, la ragazza: Tokyo decadence fin de siècle. Un pezzo di antiquariato.
La bolla – penso mentre ritorno all’albergo con una scatola di sushi, acquistata in un negozio di liquori di lusso, e una bottiglia di Bikkle – è stato il loro penultimo calcio. Il tessuto industriale americano trapiantato nel dopoguerra ha richiesto un po’ di tempo per attecchire, poi negli anni Ottanta ha finalmente funzionato, ma il propellente economico non poteva durare a lungo.
Dopo quasi dieci anni di stagnazione (l’ultimo calcio del secolo), la seconda economia più ricca del pianeta appare ancora come il luogo più ricco del mondo, ma le energie si sono spostate, le linee di campo globali del denaro e del movimento si sono invisibilmente riallineate, ma mi sembra che tutto quel folle impeto sia finalmente arrivato a conclusione. Da qualche parte. Qui. Sotto l’autostrada che Andrej Tarkovskij usò come set fantascientifico quando girò Solaris.
Infermiere manga
Il giorno dopo m’imbatto in Douglas Coupland, anche lui di Vancouver, nella filiale di Shibuya di Tokyu Hands, un emporio di otto piani dedicato al bricolage, dove il fai da te comprende cose come il taglio professionale dei diamanti. Coupland mi presenta Michael Stipe. Coupland è sfasato come me dal cambio di fuso orario, ma Stipe sembra piuttosto sfasato dalla vita notturna, visto che la sera prima è stato in giro fino alle due. E gli piace Tokyo? “È sconvolgente”, dice Stipe.
Più tardi, dopo essere andato nel quartiere Harajuku da Kiddy Land, un altro negozio di otto piani – dedicati a giocattoli decisamente diversi da noi –, fuori da Harajuku Station il mio sguardo viene catturato da una frotta di infermiere adolescenti, come uscite dai manga, rockettare equipaggiate di stivali con gli zatteroni, alti fino al ginocchio, pantaloni da cavallerizza, top nero alla Laura Croft e camici da laboratorio aperti e doverosamente inamidati, più lo stetoscopio intorno al collo.
Senza uno stetoscopio chiaramente il look non funziona.
Vanno a spasso per Harajuku: fumando sigarette, parlando al telefonino, facendosi vedere. Giro per un po’ intorno a loro, nella speranza che qualcuna abbia addosso una sacca per colostomia o un catetere esterno, ma la maggior parte dei look, qui come altrove, è definito rigidamente. Portano tutte lo stesso rossetto nero, che al centro si riduce a rosa.
Pura delizia
Mentre torno all’albergo penso alle infermiere. A qualcosa sui sogni, sull’interfaccia tra il privato e il suo riflesso. A Tokyo è possibile: essere per strada una ragazza con la divisa da infermiera. Puoi sognare in pubblico. E il motivo è che questa è una delle città più sicure al mondo, e una zona speciale, Harajuku, ti è già stata riservata. Questo era vero durante la bolla, e resta vero anche oggi, malgrado le droghe e i nullafacenti e un considerevole aumento locale della globalizzazione. I giapponesi, mentre venivano presi a calci nel corso del tempo, hanno imparato a tirare avanti in modi che noi solo adesso cominciamo a immaginare. Non si preoccupano veramente, non come facciamo noi. Le infermiere uscite dai manga non minacciano niente; c’è un posto per loro, e per qualunque cose le rimpiazzi.
Trascorro la mia ultima sera a Shinjuku con Coupland e un amico. Difficile trovare qualcosa di simile: queste strade anonime di luci al neon pullulano di ogni forma di pubblicità elettronica, sotto una pioggerellina che ammorbidisce gli spot che scorrono su schermi-facciata di un’ampiezza e una chiarezza piuttosto surreale. I giapponesi lo imparano dalla televisione: purché sia grande tutto apparirà cool. I situazionisti francesi che tanto parlavano di “società dello spettacolo”, in realtà non ne sapevano niente. Eccola, proprio qui, e io l’adoro. Di notte Shinjuku è uno dei posti più assurdamente belli al mondo, e in un certo senso il più sciocco di tutti i posti belli – e questa combinazione è pura delizia.
E stasera, osservando quel che i giapponesi fanno qui, in mezzo a tutto questo kitsch elettrico, tutti questi media casualmente sovrapposti, questo tumulto caoticamente stabile di pubblicità sensazionalistiche al neon, ho la mia risposta: il Giappone è ancora il futuro. E se la vertigine è finita, significa solo che i giapponesi si sono spinti all’altra estremità di questo tunnel di cambiamento prematuramente accelerato. Qui, nella prima città arrivata così saldamente e comodamente in questo nuovo secolo – la città più autenticamente contemporanea che ci sia – il centro regge.
In un mondo di cambiamento esponenziale indotto dalla tecnologia, i giapponesi hanno un vantaggio acquisito: sanno come viverci. Nessuno stabilisce l’attuazione di questo tipo di cambiamento: esso semplicemente avviene, e continua ad avvenire – e i giapponesi lo sperimentano da più di cento anni.
Li vedo qui, stasera, andarsene in giro calmi e posati, con la vita che prosegue, tra il bagliore di queste grandissime televisioni. Laureati in tutto questo.
Finalmente a casa, nel Ventunesimo secolo.
Traduzione di Nazzareno Mataldi
L’autore
William Gibson è uno scrittore e autore di fantascienza statunitense nato nel 1948 e naturalizzato canadese, considerato l’esponente di spicco del filone cyberpunk. In Italia è pubblicato da Mondadori e Fanucci. Consigliata la lettura di un ritratto uscito su «Wired Italia» il 24 giugno 2024, e un altro su «Esquire Italia» del 20 aprile 2022. L’originale dell’articolo di cui sopra uscì sul numero del settembre 2001 del mensile statunitense «Wired» con il titolo “My Own Private Tokyo”; la traduzione italiana fu pubblicata dal settimanale «Internazionale» nel numero 414 del 30 novembre 2001, alle pagine 56-58, con il titolo “La capitale del domani”.