Dal bit al qubit
A cent’anni dalla prima formulazione completa della teoria della meccanica quantistica, l’era dei computer quantistici è sempre più vicina. Un articolo di «New Scientist» che ne parlava già nel 1997
Tra i tanti anniversari che si celebreranno anche in questo 2025, ce n’è uno che merita una particolare considerazione: i cento anni dal primo tentativo di dare una formulazione teorica esauriente al complesso di fenomeni che caratterizzano la materia, le radiazioni e le loro reciproche interazioni a livello atomico e subatomico, fenomeni per interpretare i quali già sul finire dell’Ottocento le precedenti teorie classiche della fisica si erano rivelate inadeguate. Stiamo parlando della “meccanica delle matrici”, elaborata nel 1925 da Werner Heisenberg, Max Born e Pascual Jordan, a partire da un’intuizione di Heisenberg, e che si può ritenere il primo abbozzo completo della teoria che si sarebbe poi chiamata “meccanica quantistica”. A distanza di pochi mesi, nel 1926, a questo primo abbozzo se ne sarebbe aggiunto un secondo, alternativo: quello a cui pervenne, in maniera del tutto indipendente, Erwin Schrödinger, con lo sviluppo della sua nota equazione e della teoria che da questa prese le mosse: la “meccanica ondulatoria”, oggi considerata la formulazione standard della meccanica quantistica, la più nota e quella maggiormente insegnata in ambito accademico.
Dovrei riattingere ai miei trascorsi di studente di fisica per addentrarmi meglio in questi discorsi, ma sono passati più di trentacinque anni da allora e faccio oggettivamente fatica; quindi mi astengo, rimandando a una semplice ricerca in Rete o, per saperne davvero di più e meglio, alla lettura di testi come quelli di Carlo Rovelli, in particolare Helgoland (Adelphi, 2020), o di quelli segnalati dal compianto giornalista scientifico Pietro Greco in un articolo per il «Il Bo Live», cui va aggiunto il suo Quanti. La straordinaria storia della meccanica quantistica (Carocci, 2020). Questo non mi impedisce però di rilanciare la notizia che, proprio per quanto accennato sopra – la prima formulazione completa, nel 1925, della teoria oggi nota come meccanica quantistica – il 2025 è stato dichiarato dalle Nazioni Unite “Anno internazionale della scienza e della tecnologia quantistica”.
E poiché da anni si parla pure di “computer quantistici”, e negli ultimi tempi si sente dire che siamo sempre più vicini a un loro avvento pratico (ci sono laboratori avanzati anche in Italia, per esempio a Napoli), la mia memoria corre a un articolo su questo argomento pubblicato dal settimanale britannico «New Scientist» già nel marzo 1997 e che, probabilmente proprio grazie ai miei trascorsi di fisica, da lì a poco mi vidi assegnare in traduzione dal settimanale «Internazionale», con il quale avevo avviato una collaborazione giusto l’anno precedente.
Per farla breve, la prima newsletter del 2025 di «Scritture» ripropone un testo sui mirabolanti computer quantistici di quando se ne parlava ancora in termini più teorici che pratici, pur avvisando che per il 2030 sarebbero potuti entrare davvero in funzione, permettendoci così di vedere all’opera sulle nostre scrivanie i fenomeni complessi, misteriosi e spesso paradossali che caratterizzano il mondo a livello atomico e subatomico.
Buona lettura e buon 2025 quantistico!
Il computer nel caffè
Elaboratori ultrarapidi che sfruttano le proprietà della meccanica quantistica. È un sogno che i fisici rincorrono da tempo. E che forse sta per realizzarsi
| Howard Baker, «New Scientist», 15 marzo 1997 |
Immaginate di poter stare in diversi luoghi contemporaneamente. Potreste mandare un vostro io al lavoro, un secondo io a fare la spesa, e un terzo io in biblioteca per un pomeriggio di studio. Potreste anche commettere un omicidio e farla franca.
Per noi è solo un sogno divertente, ma nello strano mondo della meccanica quantistica l’esistenza parallela è relativamente comune. Gli elettroni lo fanno sempre. E dodici anni fa, i fisici si resero conto che potevano fare buon uso della coesistenza quantistica per costruire una nuova generazione di computer ultrarapidi. Un computer quantistico potrebbe dividersi in milioni di copie identiche, dotandosi di una tale potenza di calcolo parallelo da far sembrare anche i più veloci computer di oggi delle tartarughe.
Questo almeno in teoria. Ancora nessuno ha mai costruito un utile computer quantistico. Perché? Perché la coesistenza quantistica non solo è strana ma è anche estremamente fragile. Un singolo capriccioso elettrone può dissestare la ramificata esistenza di un oggetto quantistico e provocarne il collasso. Un computer quantistico andrebbe quindi isolato dal resto dell’universo in modo che la sua dinamica quantistica naturale possa rivelarsi.
I ricercatori le hanno provate tutte per aggirare il problema, usando schemi elaborati di campi elettrici e magnetici per confinare singoli atomi in camere a vuoto ultraspinto, e laser di precisione per raffreddare gli atomi a temperature appena un millesimo di grado sopra lo zero assoluto. Lavoro impressionante, senza dubbio. Tuttavia, questi sforzi fantastici non hanno ancora prodotto una macchina quantistica funzionante e capace di eseguire se non altro i più elementari calcoli aritmetici.
Si dà però forse il caso che il dispositivo cruciale in grado di consentire l’elaborazione quantistica è stato durante tutto questo tempo letteralmente sotto il naso dei ricercatori. Negli ultimi due mesi, due gruppi di ricerca statunitensi hanno scoperto come eseguire un’elaborazione quantistica in una normale tazzina di caffè – o in una pinta di birra, all’occorrenza. Non servono costosi macchinari: in una decina di anni questo nuovo sorprendente approccio potrebbe permettere a ogni laboratorio di chimica di avere un suo computer quantistico perfettamente funzionante.
La storia del computer quantistico inizia con Richard Feynman, il geniale fisico americano, e con la sua originalissima visione del mondo quantistico. Secondo Feynman gli oggetti quantistici hanno la tendenza a fare contemporaneamente di tutto. Un elettrone, per esempio, nel muoversi da un punto a un altro non segue un unico cammino. Piuttosto, li segue tutti. Gli elettroni che si muovono lungo i vari percorsi hanno esistenze parziali fantasma che si ricombinano nel punto di arrivo per ricreare un elettrone con esistenza reale. La cosa può suonare bizzarra, ma la teoria di Feynman non è una pura improvvisazione filosofica, riveste un ruolo centrale in ogni branca della moderna fisica quantistica.
Stimolato dall’idea degli elettroni che seguono percorsi plurimi, Feynman nel 1985 suggerì che si potesse realizzare un computer che ne ricalcasse la logica. Un normale computer svolge una serie di calcoli manipolando le stringhe di zeri e di uno immagazzinate nei transistor. E nel portarsi da una stringa iniziale a una stringa finale che rappresenta la risposta a un problema, segue una strada ben definita. Un computer quantistico, al contrario, sarebbe più avventuroso. Moltiplicando le sue esistenze al pari di un elettrone, esplorerebbe contemporaneamente molti percorsi computazionali. E con le sue varie esistenze parziali che lavorano tutte in parallelo, sarebbe immensamente più potente di un computer convenzionale.
Per realizzare un computer quantistico c’è solamente bisogno di immagazzinare i bit in singole particelle anziché nei transistor. Si potrebbero usare elettroni o protoni, o anche ogni altra particella elementare. Un protone, per esempio, può ruotare sul suo asse solo in due modi, che vengono convenzionalmente detti di “spin su” e “ spin giù”. Così, un computer quantistico potrebbe immagazzinare una stringa di bit in una serie di protoni, assumendo che spin su stia per 1 e che spin giù stia per 0. Manipolando questi bit quantistici – questi “qubit” – sarebbe possibile eseguire operazioni di calcolo. Ed ecco dove entrerebbe in gioco la potenza dell’esistenza multipla. Un pallone da basket può ruotare o in senso orario oppure in senso antiorario. Ma un protone può fare contemporaneamente entrambe le cose. Può esistere in una sovrapposizione degli stati spin su e spin giù; parimenti, il qubit che rappresenta sarà dunque in una sovrapposizione dei valori 0 e 1. Ed è proprio questa doppia esistenza fantasma a determinare la maggiore velocità di calcolo.
Consideriamo due qubit, ognuno in una sovrapposizione dei valori 0 e 1. Se singolarmente ognuno dei qubit ha due esistenze, presi in coppia le esistenze diventano quattro, in corrispondenza di ciascuno degli stati 00, 01, 10 e 11. Similmente tre qubit, ognuno in una sovrapposizione di stati, generano una coesistenza di stringhe di tre bit, nello specifico in numero di otto. E il discorso si generalizza per una qualsiasi combinazione di qubit. Se ogni qubit è in una sovrapposizione di stati, una manipolazione computazionale opera allora contemporaneamente su tutte le possibili stringhe.
Un computer quantistico a 32 qubit equivarrebbe di fatto a più di quattro milioni di computer coesistenti e operanti in parallelo l’uno con l’altro. Impressionante, no? C’è però un problema, e anche grosso. Sembra che le sovrapposizioni sono simili a ponti traballanti: tendono a collassare. Un qubit, originariamente in una sovrapposizione di stati, cadrà in uno dei singoli stati 0 o 1 se solo interagisce con l’ambiente circostante – la parete di una camera a vuoto, per esempio, o il dito di un ricercatore. Naturalmente, questa caduta – nota come “decoerenza” – manda all’aria lo spettacolo; altrettanto naturalmente, quindi, i primi tentativi sperimentali hanno riguardato proprio i modi di impedirla.
Sembra ora che due gruppi indipendenti di ricerca abbiano trovato un modo semplice di evitare la decoerenza e di rendere l’elaborazione quantistica molto più a portata di mano. L’idea è quella di usare come qubit i momenti nucleari di spin di molecole di liquidi ordinari, e di manipolarli usando i metodi della risonanza magnetica nucleare (Rmn). E così, ciò che sembrava quasi impossibile diventa improvvisamente semplice.
All’inizio dell’anno Neil Gershenfeld, del Massachussets Institute of Technology, e Isaac Chuang, dell’Università della California di Santa Barbara, hanno esposto le loro idee su «Science» (vol. 275, pag. 350). Contemporaneamente un’altra équipe di ricercatori – composta da David Cory, anch’egli del Mit, e da Amr Fahmy e Timothy Havel, della Harvard University – produceva le prime conferme sperimentali («Proceedings of the National Academy of Sciences», vol. 94, pag. 1634).
Una tazza di caffè
Il nucleo di un atomo è composto di neutroni e di protoni. E la risultante dei momenti di spin di queste particelle fornisce lo spin complessivo del nucleo. In una molecola di caffeina – e di queste molecole in una tazzina media di caffè ce ne sono circa 1020 – ci sono parecchi nuclei con spin, e ognuno di essi può funzionare da qubit. Ogni molecola è un distinto computer quantistico a svariati bit. In presenza di un campo magnetico, ogni gruppo di spin nucleari ha una differente energia, e impulsi radio della frequenza appropriata possono ruotare gli spin su o giù, rendendo possibili operazioni computazionali.
Ogni impulso radio si ripercuote su tutte le molecole del liquido, facendole passare attraverso una successione di stati di spin, dall’inizio alla fine. Nei liquidi, sebbene le molecole si urtino frequentemente l’una con l’altra, ciò difficilmente influenza lo spin dei loro nuclei. Una volta fissato, questo resta immutato per tempi che possono variare da alcune decine a parecchie migliaia di secondi. E dato che un impulso radio può ruotare uno spin su o giù in appena un millisecondo, in quella manciata di secondi è possibile eseguire un mucchio di singole procedure di calcolo. “Durante il tempo di decoerenza di una molecola si possono forse realizzare alcune migliaia di operazioni logiche elementari”, dice Gershenfeld.
Questo fatto sembra molto promettente. Ma è anche sconcertante. Dopo tutto, le tecniche della risonanza magnetica nucleare sono note da circa quarant’anni. Perché, allora, non sono state applicate prima all’ipotesi di elaborazione quantistica? Il problema era che nessuno riusciva a individuare il modo di andare a leggere il risultato finale di un’operazione computazionale. Questo risiede negli stati finali di spin delle molecole del liquido. Ma questi come misurarli?
Le cose sarebbero semplici se un esperimento potesse focalizzarsi su una sola molecola. Ogni nucleo è come un piccolo magnete, che sottoposto a un campo magnetico si allinea alle linee del campo – nello stato di spin su o spin giù – e conserva l’orientamento che ha acquisito. Ma si rovesci il piccolo magnete fino a renderlo perpendicolare al campo, ed ecco che comincerà a ruotare. E poiché i magneti in rotazione generano segnali misurabili, si può perciò pensare di misurare lo stato di spin di una molecola inclinando di lato i piccoli magneti nucleari ricorrendo a un impulso radio appropriato. Il segnale risultante fornirà l’esatta indicazione del complessivo stato molecolare di spin – il risultato di un processo computazionale quantistico.
Quest’approccio funziona in presenza di una molecola singola, ma noi dobbiamo operare su un liquido, che di molecole ne ha molteplici, e quindi la faccenda si complica. Il guaio è che le molecole di un liquido non si trovano tutte nello stesso stato di spin. All’equilibrio circa la metà è nello stato di spin su, e l’altra nello stato di spin giù. Un’elaborazione quantistica eseguita con un simile sistema di molecole conduce a uno stato finale con molecole disposte secondo molti stati di spin, anziché uno. Non funziona più, a questo punto, rovesciare il magnete di ogni nucleo e cercare di raccogliere un segnale: per ogni piccolo magnete che punta in una direzione ce n’è un altro che punta in quella opposta. I loro segnali così si elidono.
È questo il motivo per cui i primi ricercatori non hanno seguito l’approccio che fa uso della risonanza magnetica nucleare, sebbene potessero vederne le potenzialità. Ma ora c’è una soluzione al problema. In presenza di un campo magnetico, e a temperatura ambiente, c’è un piccolo eccesso di molecole nello stato di spin su. Questo eccesso si staglia sullo sfondo per formare quello che Cory, Havel e Fahmy chiamano uno “stato di spin pseudo-puro”. Questo piccolo eccesso si comporta come se fosse esattamente una molecola singola. Risponde agli impulsi radio e alla fine di un calcolo genera un segnale e una risposta. Di fatto, tutte le molecole del liquido eseguono un’operazione computazionale, ma solo un numero piccolissimo di esse eseguono quella giusta. Gli esperimenti mostrano che la cosa funziona. Cory, Havel e Fahmy hanno lavorato su molecole con due, con tre e con quattro spin, rappresentanti computer con due, tre e quattro qubit. Come riferisce Cory, “in entrambi i casi si sono ottenuti risultati conformi alle aspettive”.
Il giusto algoritmo
Naturalmente, pochi qubit non consentono di eseguire nessuna elaborazione elettronica veramente utile, mentre, secondo quanto dice Gershenfeld, “un computer quantistico a 30 qubit sarebbe più potente di qualsiasi supercomputer attualmente esistente”. Entrambi i gruppi di ricercatori concordano che per raggiungere i 10 qubit non ci vorrà molto; si tratta solo di trovare una buona molecola che abbia 10 spin nucleari.
Le molecole di caffeina contenute in una tazza di caffè possono essere un buon candidato. Cory e suoi colleghi hanno in progetto di raggiungere gli 8 spin già entro il prossimo anno e di dimostrare la fattibilità di una vasta serie di operazioni di calcolo. Gershenfeld guarda anche oltre: “Il nostro lavoro sperimentale sta procedendo più velocemente di quanto mi aspettassi. Stiamo già mettendo a punto dei circuiti quantistici”.
Ma quanto saranno utili, alla fine, questi computer quantistici? Nessuno può dirlo, in verità. Perché un computer possa risolvere un problema, è necessario fornigli il giusto algoritmo. Ma trovare buoni algoritmi è complicato dato che ogni nuovo problema pone ostacoli speciali. Per l’elaborazione classica gli scienziati hanno compilato interi cataloghi di algoritmi in grado di risolvere i più svariati tipi di problemi.
Alla fine, lo stesso si verificherà forse con l’elaborazione quantistica, ma al momento di simili algoritmi ne esistono pochi. Uno di essi, sviluppato tre anni fa da Peter Shor, allora presso gli At&t Bell Laboratories del New Jersey, risolve il problema notoriamente difficile di trovare i fattori primi in un numero a molte cifre. Con un numero di cento cifre persino il più potente supercomputer esistente al mondo sfacchinerebbe per intere settimane senza arrivare alla soluzione finale. Un computer quantistico, d’altra parte, sputerebbe fuori la risposta in appena qualche secondo. A chi può interessare questo? Alle banche. Ai governi. Dato che gli schemi di codifica utilizzati per tutelare la sicurezza delle informazioni riservate fanno proprio affidamento sulla difficoltà di fattorizzare i numeri grandi. Il rischio è dunque che un computer quantistico potrebbe facilmente decriptare i codici di protezione e provocare dissesti internazionali.
Gershenfeld vede un’analogia tra i computer quantistici e la macchina calcolatrice di Charles Babbage, l’antesignana degli odierni calcolatori elettronici. Babbage inventò la sua macchina al solo scopo di facilitare il computo dei logaritmi. E guardate cosa ha prodotto: la videoscrittura, lo sbarco sulla Luna, i supercomputer, Internet. Quello di Shor è il primo algoritmo veramente potente pensato per l’elaborazione quantistica, ma altri certamente ne seguiranno. Se così sarà, allora i giorni della messa in pratica dell’elaborazione quantistica potrebbero essere davvero dietro l’angolo, come lo spera Gershenfeld. “Il mio reale interesse è riuscire a progettare un computer quantistico da tavolo”, dice. “Voglio che ognuno abbia un coprocessore quantistico, e per farlo funzionare bisognerà letteralmente versarvi dentro del fluido-processore”.
La scelta del fluido potrebbe anche rivelarsi importante. Le molecole con più spin possono eseguire calcoli più complicati. “I chimici si ritroveranno improvvisamente ad avere un ruolo molto più importante nella progettazione dei computer”, dice Gershenfeld. “Abbiamo solo bisogno di trovare una molecola speciale, tra la miriade di quelle che la chimica conosce, che permetta di realizzare un computer quantistico con un opportuno numero di qubit”, puntualizza Cory.
Gershenfeld apprezza l’ironia insita in tutto ciò: “Mi piace l’idea che, anziché un impianto industriale dal costo di miliardi di dollari, provveda la natura ad assemblare il nostro apparato semplicemente sintetizzando delle molecole. La natura, ovviamente, utilizza da sempre l’elaborazione quantistica”.
C’è però una nota stonata: la forza del segnale diminuisce all’aumentare del numero dei qubit. Secondo David DiVincenzo, dell’Ibm Watson Research Centre di Yorktown Heights, nello Stato di New York, “per ogni qubit aggiuntivo la forza del segnale si riduce di un fattore 2”. Questo significa che il segnale in un computer a 30 qubit sarebbe 30mila volte più debole di quello di un computer a 15 qubit. Il rischio è che un computer con un numero di bit sufficientemente elevato da consentire operazioni di calcolo veramente interessanti produrrebbe un segnale di uscita così debole che non riusciremmo mai a recuperare il risultato delle elaborazioni.
Questo perché la forza del segnale dipende dal numero di molecole che costituiscono lo stato di spin pseudo-puro. Con più spin a disposizione, le molecole si distribuiscono secondo il maggior numero di stati di spin disponibili. Il risultato è che diminuisce il numero delle molecole che realizzano il piccolo eccesso cui si deve lo stato di spin pseudo-puro. Ma Gershenfeld pensa di poter superare questi problemi. “Ci sono molti rimedi che possiamo tentare”, osserva, come raffreddare il liquido per far aumentare il piccolo ma cruciale sbilancio tra spin su e spin giù. “Se dovessimo aver successo, potremmo vedere un coprocessore quantistico all’opera in appena dieci anni”.
Riempite perciò il frigo di caffè ghiacciato e di limonata supergasata. Per l’anno 2030 potrebbero servirvi per alimentare il vostro computer fantasmagoricamente veloce e vedere all’opera sulla vostra scrivania la strana esistenza multipla che caratterizza il mondo quantistico.
Traduzione di Nazzareno Mataldi
L’autore
Howard Baker è un ricercatore e professore britannico di fisica, specializzato nella tecnologia dei laser, nonché un divulgatore scientifico, in particolare per «New Scientist». L’articolo sopra riproposto, uscito con il titolo originale “Wake up to quantum coffee” il 17 marzo 1997, fu pubblicato dal settimanale «Internazionale» nel numero 185 del 13 giugno 1997.